LA SCHEGGIA DENTRO
Una volta all’anno si fermava a considerare quel che gli era stato risparmiato, e ciò bastava a renderlo felice. Quando aveva attraversato clandestinamente il confine, gli sarebbe infatti potuto accadere quello che era successo a un compagno di classe del Liceo Sigismondo Augusto, il quale dovette trascorrere sedici anni nei gulag. In verità, e benché gli autori delle sue biografie non ne facciano cenno, uno dei motivi ricorrenti della sua lunga vita è costituito dal pensiero del destino dei suoi coetanei di Vilnius nei campi di lavoro e nelle miniere di Vorkuta. Si identificava con i prigionieri della notte polare e da questo derivava la sua gratitudine estatica per ogni aurora e per ogni fetta di pane. Tuttavia, proprio per questa ragione, si portava dentro una scheggia di risentimento verso quelli dell'Ovest, come venivano chiamati. Non riusciva a perdonare non soltanto gli intellettuali, alla ricerca costante della perfetta tirannia purché lontana dai propri tetti, ma anche tutti i cittadini di quei paesi accomunati dal rifiuto della verità.
Si domandava, però, che cosa fare di questa scheggia. L’atteggiamento più onesto avrebbe suggerito di sobbarcarsi al compito di proclamare pubblicamente la verità.
Purtroppo, l “Impero della Menzogna” era potente, e gli sprovveduti collezionisti di fatti non erano in grado di contrastarlo, dal momento che le loro sconvolgenti rivelazioni venivano bollate come allucinazioni di menti malate. Era perciò necessaria una tattica più scaltra. Alcuni tra quelli che avevano dentro la scheggia avrebbero deciso di servire l'Impero, e prendersi così la rivincita sui politici malvagi dell'Occidente. Lui, invece, dopo molte esitazioni, scelse un’altra strada. Imparò, come s'addice a un fedele dell’intelletto, a fingere per anni d'essere colto, progressista, tollerante, permissivo, fino a diventare uno dei loro luminari, proprio tenendosi dentro quella consapevolezza che non intendeva rivelare. E quando i suoi libri acquisirono fama, e furono sottoposti a analisi, nessun critico letterario avrebbe potuto immaginare che dietro le meditazioni filosofiche si stagliava l’immagine di patimenti che gridavano vendetta davanti a Dio. Soltanto il ricordo dei prigionieri di Vorkuta poteva fornire la misura incrollabile per distinguere il bene dal male, e chiunque l’applicasse diventava per il mostro Stato più pericoloso di reggimenti ed eserciti.
DISTACCHI
Ciò che mi accingo a dire sarà compreso da quelli fra noi che hanno vissuto un momento simile, ad esempio durante un rivolgimento storico, quando la vita di una società umana rivela all’improvviso tratti insospettati. Molti hanno fatto questa esperienza poiché in questo secolo ci sono stati parecchi rivolgimenti storici.
Ci può accadere di camminare, osservare, essere tormentati dalla nostra pietà o dalla nostra rabbia e all'improvviso realizzare che quello che abbiamo davanti agli occhi, tutta quella realtà, va aldilà delle parole. Cioè, che non se ne trova traccia sui giornali, nei libri, sui dispacci, né nella poesia, nella narrativa o sugli schermi cinematografici. Dalla realtà familiare, recepita nel modo più comune, se ne distacca un’altra, autonoma, racchiusa nella lingua. Sgomenti, ci chiediamo: è un sogno?
Una fata Morgana? La struttura dei segni linguistici ci avvolge come un bozzolo e si rivela tanto forte da farci dubitare dei nostri sensi.
Una simile esperienza non ci predispone favorevolmente nei confronti della letteratura. Ci obbliga a esigere il realismo. Il che spesso porta a uno pseudorealismo o a una veridicità che nessuno riuscirebbe a sopportare. Nel diciannovesimo secolo si diceva che il romanzo dovesse essere “uno specchio portato sulla strada maestra”, ma i romanzi realistici non si fecero scrupolo di mentire, spazzando via dal campo della visione quegli argomenti che erano considerati spiacevoli o proibiti. La vera Londra del capitalismo ottocentesco non esiste certo nei romanzi, se si eccettuano alcune pagine di Dickens, ma possiamo farci un'idea di che cosa fosse quella Babilonia di miseria e prostituzione nel 1862 attraverso gli occhi di uno straniero, leggendo Note d'inverno su impressioni estive di Dostojevskij.
Il ventesimo secolo ci ha portato una realtà fittizia elaborata dalla volontà politica. Si trattava di un schermo dipinto con “scene di vita” per nascondere quel che si svolgeva dietro di esso. Lo chiamavano realismo socialista. Eppure gli ordini e le proibizioni dello Stato sono solo una delle possibili cause di questa divisione fra quel che si vede e quel che si descrive. La struttura del linguaggio manifesta una costante propensione a distaccarsi dalla realtà e i nostri sforzi per rimetterle insieme, anche se in molti casi futili, sono tuttavia assolutamente necessari.
MRS. DARWIN
Prima della pubblicazione de L'origine delle specie nel 1859, Charles Darwin dovette ascoltare i molti rimproveri della moglie, una donna profondamente religiosa, che non riusciva ad accettare la sua decisione di dare alle stampe un libro così riprovevole.
“Charles — gli diceva — Dio ci ha detto di aver creato l’uomo a Sua immagine e somiglianza. Non ha detto questo della formica, l'uccello, la scimmia, o il cane o il gatto. Ha posto l’uomo sopra tutti i viventi e ha assoggettato la terra al suo dominio. Con quale diritto privi della sua dignità un essere che ha il volto di Dio ed è uguale agli angeli?”
Il marito, allora, replicava che se non lo avesse fatto lui, ci avrebbe pensato Wallace che aveva avuto un'idea simile.
“Charles — era la sua risposta — si dovrebbe essere consapevoli delle proprie motivazioni.
Non ti saresti tanto dato da fare a procurarti fama come scienziato se non fosse per la serie di fallimenti che hai avuto. So bene che non ti piace che te lo ricordi, ma se fossi riuscito a diventare medico, come desideravi, avresti tratto abbastanza soddisfazione dalla cura della gente invece di cercare di soddisfare la tua ambizione ad ogni costo. E se quegli anni trascorsi a Cambridge come studente di teologia ti avessero permesso di diventare un ministro del culto, il tuo lavoro in una comunità ti avrebbe protetto dall’avventurismo. Sai bene da chi hai preso la tua teoria. L'hai presa da Malthus. Un uomo malvagio, Charles, crudele e indifferente al destino dei poveri. Io non credo alla tua teoria, perché le tue osservazioni non sono dettate da buone intenzioni.”
Sì, Charles Darwin ebbe occasione, in seguito, di ripensare alle parole della moglie, pur rimanendo certo al contempo della giustezza della sua teoria dell'evoluzione. Peggio per me e per gli esseri umani.
La teologia che se ne può ricavare non è altro che quella di un parroco perverso. Quale buon Creatore avrebbe potuto inventare un mondo siffatto, un’arena in cui, come gladiatori, gli individui e le specie lottano per la sopravvivenza? Se egli osserva tutto questo al modo di un imperatore romano seduto nel suo palco speciale, io non intendo rendergli omaggio. Felici quelli che, come Emma, hanno conservato l’immagine di Dio come nostro Padre e amico.
TRASMISSIONE DI TRATTI ACQUISITI
In genere, non si parla dei problemi psicologici dei sacerdoti, come se fossero una specie separata, al servizio del rito. Anche quel prete, chiamiamolo Stanislaw, era del parere che non avesse diritto di parlare di sé, poiché la gente si aspettava da lui qualcosa di diverso. Ciò nonostante, si rendeva ben conto di vivere allo stesso tempo in due zone, una protetta dal silenzio, e un’altra in cui si usavano esclusivamente parole e nozioni autorizzate dai dogmi del cattolicesimo.
Quel che si portava dentro potrebbe in breve essere definito terrore. Pensava persino che i genitori gli avessero trasmesso, a lui nato dopo la guerra, i loro momenti di terrore codificati nel sangue: il che potrebbe significare che ereditiamo non solo una combinazione di geni ma anche tutti i tremori dell'organismo, provocati dalla gioia e dalla disperazione. Un paese con una storia eccezionalmente crudele espone chiunque a situazioni drammatiche, e il ricordo di avvenimenti atroci covava sotto la superficie della routine quotidiana. Stanislaw riteneva che il suo terrore del mondo fosse stata la vera motivazione della sua decisione di farsi prete.
Meditò molto sulla generazione dei suoi genitori, giungendo alla conclusione che fosse paralizzata o malata e, quel che è peggio, che si rifiutasse di riconoscerlo. Se uno è uno schiavo, umiliato, schiaffeggiato, pieno d’odio e impotente, quest’esperienza lo segnerà per sempre. Le incursioni schiavistiche in Africa e l'istituto della schiavitù erano stati ricreati sul continente europeo, ma rivolti questa volta contro i bianchi, schiavi costretti ora, per di più, a guardare i propri vicini, anch'essi bianchi, che venivano uccisi, mentre era proibito intervenire, pena la morte.
Stanislaw non sapeva, né volle mai cercare di sapere che cosa avessero provato i suoi genitori quando avevano dovuto stornare gli occhi dallo spettacolo dell’annichilimento degli ebrei e confessare in cuor loro che la propensione all’autodifesa era più forte della pietà o della dignità. Andavano in chiesa ogni domenica e in qualche modo riuscirono a riconciliare la contraddizione. Forse chiesero perdono al buon Dio.
Padre Stanislaw si considerava un figlio del popolo, umiliato e schiacciato da uno Stato di polizia fondato in nome dell'utopia di razza, prima, e poi di classe. Al seminario, la sua attenzione era stata attratta dalla storia della Chiesa dei primi secoli, quando il Cristianesimo era ovviamente una religione di schiavi. I quali venivano inchiodati alle croci sui bordi delle strade al minimo segno di ribellione affinché gli spasimi dell’agonia testimoniassero il potere invincibile dell'impero.
Il terrore colmava padre Stanislaw di immagini di sofferenza che nessuna protesta o implorazione umana potevano evitare. Il cielo rispondeva col silenzio ai gemiti dei servi frustati, agli urli degli schiavi crocifissi e alle preghiere dei prigionieri nei campi di concentramento del ventesimo secolo. Se era Dio a creare questo mondo sottoposto alla cieca legge della forza, allora era moralmente un mostro e non era più possibile credere in Lui.
Stanislaw credeva in Dio soltanto perché aveva mandato al supplizio il suo unico Figlio, cioè se stesso, e aveva nell’agonia della morte sussurrato con labbra umane parole di disperazione estrema. Una mancanza completa di logica nella religione cristiana era l’unica possibile logica della fede. E tuttavia Stanislaw non confidò a nessuno la sua ossessione, così strana per un prete. Non riusciva, vale a dire, ad accettare l'uso che si faceva della croce. I fedeli trasportavano nelle loro chiese uno strumento di tortura come un segno di Salvezza, senza vedervi il corpo contorto in una sofferenza intollerabile, come se si potesse essere cristiani soltanto rinunciando a un’'immaginazione empatica.
Trasformando il Crocifisso in un'astrazione, essi rendevano anche irreale il corpo sulla forca o nelle camere a gas, di modo che non si riconoscesse che la religione di un Dio crocifisso è una religione di dolore cosmico.
(da “Partisan Review”, I, 1997; © Czeslaw Milosz)
TEMI
di Czeslaw Milosz
traduzione di Giorgio Pillonca
“persuasioni” - Lo Straniero - n.2 inverno 1997/98 pag.98