RAPIDITÀ
ovvero Festina lente, affrettati lentamente
da Lezioni americane
di Italo Calvino
… “Ma sopra tutte le invenzioni stupende, qual eminenza di mente fu quella di colui che s’immaginò di trovar modo di comunicare i suoi più reconditi pensieri a qualsivoglia altra persona, benché distante per lunghissimo intervallo di luogo e di tempo? parlare con quelli che son nell’Indie, parlare a quelli che non sono ancora nati né saranno se non di qua a mille e diecimila anni? e con quale facilità? con i vari accozzamenti di venti caratteruzzi sopra una carta.”
Nella mia precedente conferenza sulla leggerezza avevo citato Lucrezio che vedeva nella combinatoria dell’alfabeto il modello dell’impalpabile struttura atomica della materia; oggi cito Galileo che vedeva nella combinatoria alfabetica (“i vari accozzamenti di venti caratteruzzi”) lo strumento insuperabile della comunicazione. Comunicazione tra persone lontane nello spazio e nel tempo, dice Galileo; ma occorre aggiungere comunicazione immediata che la scrittura stabilisce tra ogni cosa esistente o possibile.
Dato che in ognuna di queste conferenze mi sono proposto di raccomandare al prossimo millennio un valore che mi sta a cuore, oggi il valore che voglio raccomandare è proprio questo: in un’epoca in cui altri media velocissimi e di estesissimo raggio trionfano, e rischiano d’appiattire ogni comunicazione in una crosta uniforme e omogenea, la funzione della letteratura è la comunicazione tra ciò che è diverso in quanto è diverso, non ottundendone bensì esaltandone la differenza, secondo la vocazione propria del linguaggio scritto.
Il secolo della motorizzazione ha imposto la velocità come un valore misurabile, i cui records segnano la storia del progresso delle macchine e degli uomini. Ma la velocità mentale non può essere misurata e non permette confronti o gare, né può disporre i propri risultati in una prospettiva storica. La velocità mentale vale per sé, per il piacere che provoca in chi è sensibile a questo piacere, non per l’utilità pratica che si possa ricavarne. Un ragionamento veloce non è necessariamente migliore d’un ragionamento ponderato; tutt’altro; ma comunica qualcosa di speciale che sta proprio nella sua sveltezza.
Ogni valore che scelgo come tema delle mie conferenze, l’ho detto in principio, non pretende di escludere il valore contrario: come nel mio elogio della leggerezza era implicito il mio rispetto per il peso, così questa apologia della rapidità non pretende di negare i piaceri dell’indugio. La letteratura ha elaborato varie tecniche per ritardare la corsa del tempo: ho già ricordato l’iterazione; mi resta da accennare alla digressione.
Nella vita pratica il tempo è una ricchezza di cui siamo avari; in letteratura, il tempo è una ricchezza di cui disporre con agio e distacco: non si tratta di arrivare prima ad un traguardo stabilito; al contrario l’economia di tempo è una buona cosa perché più tempo risparmiamo, più tempo potremo perdere. La rapidità dello stile e del pensiero vuol dire soprattutto agilità, mobilità, disinvoltura; tutte qualità che s’accordano con una scrittura pronta alle divagazioni, a saltare da un argomento all’altro, a perdere il filo cento volte e a ritrovarlo dopo cento giravolte.
La grande invenzione di Laurence Sterne è stata il romanzo tutto fatto di digressioni; un esempio che sarà subito seguito da Diderot. La divagazione o digressione è una strategia per rinviare la conclusione, una moltiplicazione del tempo all’interno dell’opera, una fuga perpetua; fuga da che cosa? Dalla morte, certamente,dice in una sua introduzione al Tristram Shandy uno scrittore italiano, Carlo Levi, che pochi immaginerebbero come un ammiratore di Sterne, mentre invece il suo segreto era proprio quello di portare uno spirito divagante e il senso d’un tempo illimitato anche nell’osservazione dei problemi sociali.
L’orologio è il primo simbolo di Shandy, - scriveva Carlo Levi, - sotto il suo influsso egli viene generato, ed iniziano le sue disgrazie, che sono tutt’uno con questo segno del tempo. La morte sta nascosta negli orologi, come diceva il Belli; e l’infelicità della vita individuale, di questo frammento, di questa cosa scissa e disgregata, e priva di totalità: la morte, che è il tempo, il tempo della individuazione, della separazione, l’astratto tempo che rotola verso la sua fine. Tristram Shandy non vuol nascere, perché non vuol morire. Tutti i mezzi, tutte le armi sono buone per salvarsi dalla morte e dal tempo. Se la linea retta è la più breve fra due punti fatali e inevitabili, le digressioni la allungheranno: e se queste digressioni diventeranno così complesse, aggrovigliate, tortuose, così rapide da far perdere le proprie traccie, chissà che la morte non ci trovi più, che il tempo si smarrisca, e che possiamo restare celati nei mutevoli nascondigli.
Parole che mi fanno riflettere. Perché io non sono un cultore della divagazione; potrei dire che preferisco affidarmi alla linea retta, nella speranza che continui all’infinito e mi renda irraggiungibile. Preferisco calcolare lungamente la mia traiettoria di fuga, aspettando di potermi lanciare come una freccia e scomparire all’orizzonte. Oppure, se troppi ostacoli mi sbarrano il cammino, calcolare la serie di segmenti rettilinei che mi portino fuori dal labirinto nel più breve tempo possibile.
Già dalla giovinezza ho scelto come mio motto l’antica massima latina Festina lente, affrettati lentamente. Forse più che le parole e il concetto è stata la suggestione degli emblemi ad attrarmi. Ricorderete quello del grande editore umanista veneziano, Aldo Manunzio, che su ogni frontespizio simboleggiava il motto Festina lente in un delfino che guizza sinuoso attorno a un’àncora. L’intensità e la costanza del lavoro intellettuale sono rappresentate in quell’elegante marchio grafico che Erasmo da Rotterdam commentò in pagine memorabili. Ma delfino e àncora appartengono a un mondo omogeneo d’immagini marine; e io ho sempre preferito gli emblemi che mettono insieme figure incongrue ed enigmatiche come rebus. Come la farfalla e il granchio che illustrano il Festina lente nella raccolta d’emblemi cinquecenteschi di Paolo Giovio, due forme animali entrambe bizzarre ed entrambe simmetriche che stabiliscono tra loro un’inattesa armonia.
Il mio lavoro da scrittore è stato teso fin dagli inizi a inseguire il fulmineo percorso dei circuiti mentali che catturano e collegano punti lontani dello spazio e del tempo. Nella mia predilezione per l’avventura e la fiaba cercavo sempre l’equivalente d’un’energia interiore, d’un movimento della mente. Ho puntato sull’immagine, e sul movimento che dall’immagine scaturisce naturalmente, pur sempre sapendo che non si può parlare d’un risultato letterario finché questa corrente dell’immaginazione non è diventata parola. Come per il poeta in versi così per lo scrittore in prosa, la riuscita sta nella felicità dell’espressione verbale, che in qualche caso potrà realizzarsi per folgorazione improvvisa, ma che di regola vuol dire una paziente ricerca del mot juste, della frase in cui ogni parola è insostituibile, dell’accostamento di suoni e di concetti più efficace e denso di significato. Sono convinto che scrivere prosa non dovrebbe essere diverso dallo scrivere poesia; in entrambi i casi è ricerca d’un’espressione necessaria, unica, densa, concisa, memorabile.
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L’ultima grande invenzione d’un genere letterario a cui abbiamo assistito è stata compiuta da un maestro dello scrivere breve, Jorge Luis Borges, ed è stata l’invenzione di se stesso come narratore , l’uovo di Colombo che gli ha permesso di superare il blocco che gli impediva , fin verso i quarant’anni, di passare dalla prosa saggistica alla prosa narrativa. L’idea di Borges è stata quella di fingere che il libro che voleva scrivere fosse già scritto, scritto da un altro, da un ipotetico autore sconosciuto, un autore d’un’altra lingua, d’un’altra cultura, - e descrivere, riassumere, recensire questo libro ipotetico. Fa parte della leggenda di Borges l’aneddoto che il primo straordinario racconto scritto con questa formula, El acercamiento a Almotàsim, quando apparve nella rivista “Sur” nel 1940, fu creduto davvero una recensione a un libro d’autore indiano. Così come fa parte dei luoghi obbligati della critica su Borges osservare che ogni suo testo raddoppia o moltiplica il proprio spazio attraverso altri libri d’una biblioteca immaginaria o reale, letture classiche o erudite o semplicemente inventate. Ciò che più m’interessa sottolineare è come Borges realizzi le sue aperture verso l’infinito senza la minima congestione, nel periodo più cristallino e sobrio e arioso; come il raccontare sinteticamente e di scorcio porti a un linguaggio tutto precisione e concretezza, la cui inventiva si manifesta nella varietà dei ritmi, delle movenze sintattiche, degli aggettivi sempre inaspettati e sorprendenti. Nasce con Borges una letteratura elevata al quadrato e nello stesso tempo una letteratura come estrazione della radice quadrata di se stessa: una “letteratura potenziale”, per usare un termine che sarà applicato più tardi in Francia, ma i cui preannunci possono essere trovati in Ficciones, negli spunti e formule di quelle che avrebbero potuto essere le opere di un ipotetico autore chiamato Herbert Quain.
La concisione è solo un aspetto del tema che volevo trattare, e mi limiterò a dirvi che sogno immense cosmologie, saghe ed epopee racchiuse nelle dimensioni d’un epigramma.
Nei tempi sempre più congestionati che ci attendono, il bisogno di letteratura dovrà puntare sulla massima concentrazione della poesia e del pensiero.
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Mi rendo conto che questa conferenza, fondata sulle connessioni invisibili, si è ramificata in diverse direzioni rischiando la dispersione. Ma tutti i temi che ho trattato questa sera, e forse anche quelli della volta scorsa, possono essere unificati in quanto su di essi regna un dio dell’Olimpo cui io tributo un culto speciale: Ermes-Mercurio, dio della comunicazione e delle mediazioni, sotto il nome di Toth inventore della scrittura, e che, a quanto dice C.G.Jung nei suoi studi sulla simbologia alchimistica, come “spirito Mercurio” rappresenta anche il principium individuationis.
Mercurio, con le ali ai piedi, leggero e aereo, abile e agile e adattabile e disinvolto, stabilisce le relazioni degli dèi tra loro e quelle tra gli dèi e gli uomini, tra le leggi universali e i casi individuali, tra le forze della natura e le forme della cultura, tra tutti gli oggetti del mondo e tra tutti i soggetti pensanti. Quale migliore patrono potrei scegliere per la mia proposta di letteratura?
Nella sapienza antica in cui microcosmo e macrocosmo si specchiano nelle corrispondenze tra psicologia e astronomia, tra umori, temperamenti, pianeti, costellazioni, lo statuto di Mercurio è il più indefinito e oscillante. Ma secondo l’opinione più diffusa, il temperamento influenzato da Mercurio portato agli scambi e ai commerci e alla destrezza, si contrappone al temperamento influenzato da Saturno, melanconico, contemplativo, solitario. Dall’antichità si ritiene che il temperamento saturnino sia proprio degli artisti, dei poeti, dei cogitatori, e mi pare che questa caratterizzazione risponda al vero.
Certo la letteratura non sarebbe mai esistita se una parte degli esseri umani non fosse stata incline a una forte introversione, a una scontentezza per il mondo com’è, a un dimenticarsi delle ore e dei giorni fissando lo sguardo sull’immobilità delle parole mute.
Certo il mio carattere corrisponde alle caratteristiche tradizionali della categoria a cui appartengo: sono sempre stato anch’io un saturnino, qualsiasi maschera diversa abbia cercato d’indossare. Il mio culto di Mercurio corrisponde forse solo a un’aspirazione, a un voler essere: sono un saturnino che sogna di essere mercuriale, e tutto ciò che scrivo risente di queste due spinte.
Ma se Saturno-Cronos esercita un suo potere su di me, è pur vero che non è mai stato una divinità di mia devozione; non ho mai nutrito per lui altro sentimento che un rispetto timore. C’è invece un altro dio che ha con Saturno legami di affinità e di parentela a cui mi sento molto affezionato, un dio che non gode altrettanto prestigio astrologico e quindi psicologico non essendo il titolare d’uno dei sette pianeti del cielo degli antichi, ma che pur gode d’una gran fortuna letteraria fin dai tempi di Omero: parlo di Vulcano-Efesto, dio che non spazia nei cieli ma si rintana nel fondo dei crateri, chiuso nella sua fucina dove fabbrica instancabilmente oggetti rifiniti in ogni particolare, gioielli e ornamenti per le dee e gli dèi, armi, scudi, reti, trappole. Vulcano che contrappone al volo aereo di Mercurio l’andatura discontinua del suo passo claudicante e il battere cadenzato del suo martello.
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Mercurio e Vulcano sono entrambi figli di Giove, il cui regno è quello della coscienza individualizzata e socializzata, ma per parte di madre Mercurio discende da Urano, il cui regno era quello del tempo “ciclofrenico” della continuità indifferenziata, e Vulcano discende da Saturno, il cui regno era quello del tempo “schizofrenico” dell’isolamento egocentrico. Saturno aveva detronizzato Urano, Giove aveva detronizzato Saturno; alla fine nel regno equilibrato e luminoso di Giove, Mercurio e Vulcano portano ognuno il ricordo d’uno degli oscuri regni primordiali, trasformando ciò che era malattia distruttiva in qualità positiva: sintonia e focalità.
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La concentrazione e la craftsmanship di Vulcano sono le condizioni necessarie per scrivere le avventure e le metamorfosi di Mercurio. La mobilità e la sveltezza di Mercurio sono le condizioni necessarie perché le fatiche interminabili di Vulcano diventino portatrici di significato, e dalla ganga minerale informe prendano forma gli attributi degli dèi, cetre o tridenti, lance o diademi. Il lavoro dello scrittore deve tener conto di tempi diversi: il tempo di Mercurio e il tempo di Vulcano, un messaggio d’immediatezza ottenuto a forza di aggiustamenti pazienti e meticolosi; un’intuizione istantanea che appena formulata assume la definitività di ciò che non poteva essere altrimenti; ma anche il tempo che scorre senza altro intento che lasciare che i sentimenti e i pensieri si sedimentino, maturino, si distacchino da ogni impazienza e da ogni contingenza effimera.
Ho cominciato questa conferenza raccontando una storia, lasciatemi finire con un’altra storia. È una storia cinese.
Tra le molte virtù di Chuang-Tzu c’era l’abilità nel disegno. Il re gli chiese il disegno d’un granchio. Chuang-tzu disse che aveva bisogno di cinque anni di tempo e d’una villa con dodici servitori. Dopo cinque anni il disegno non era ancora cominciato. “Ho bisogno di altri cinque anni” disse Chuang-Tzu. Il re glieli accordò. Allo scadere dei dieci anni, Chuang-Tzu prese il pennello e in un istante, con un solo gesto, disegnò un granchio, il più perfetto granchio che si fosse mai visto.