La crisi dell'uomo
di Albert Camus
trad. di Francesco Berti Arnoaldi
Vorrei, prima di tutto, definire la situazione della mia generazione. Quelli della mia età, in Francia e in Europa, sono nati subito prima o durante la prima guerra mondiale, sono diventati adolescenti con la crisi economica mondiale e avevano vent’anni quando Hitler arrivò al potere. Per completare la loro educazione ebbero poi la guerra di Spagna, Monaco, la guerra del 1939, la disfatta e quattro anni di occupazione e lotta clandestina. Credo che la nostra sia quella che si dice una generazione “interessante”. E così ho pensato che sia più istruttivo che io vi parli non in nome mio, ma in nome di un certo numero di francesi che oggi hanno trent’anni e che si sono formati intellettualmente e sentimentalmente in quegli anni terribili in cui essi, non meno che il loro paese, si nutrirono di vergogna e impararono a ribellarsi.
Sì: questa è una generazione interessante, e prima di tutto perché davanti al mondo assurdo che i padri le avevano preparato non ha creduto in niente e ha vissuto in stato di rivolta.
La letteratura del loro tempo era in rivolta contro la chiarezza, la narrazione, addirittura la frase.
La pittura rifiutava il soggetto, la realtà e persino l’armonia. La musica rigettava la melodia.
E da parte sua la filosofia insegnava che non c’era verità oltre quella fenomenica; che potevano esserci Mister Smith, Monsieur Durant, Herr Vogel, ma senza che vi fosse nulla in comune fra questi tre particolari fenomeni. L’atteggiamento morale di questa generazione era ancor più categorico: ritenevano il nazionalismo una realtà ormai superata, la religione un esilio e venticinque anni di politica internazionale li avevano portati a dubitare di ogni purezza, a pensare che nessuno aveva torto giacché chiunque poteva aver ragione. E la morale tradizionale della nostra società era allora quella che ancora ci appare: una mostruosa ipocrisia.
Eravamo dunque passati alla negazione. Niente di nuovo, beninteso. Altre generazioni, in altri paesi, erano passate attraverso questa esperienza in altre epoche storiche. Quel che c’era di nuovo, tuttavia, era che questa volta gli uomini, estraniatisi da ogni valore, avrebbero dovuto adattarsi alle realtà dell’assassinio e del terrore. È stato a questo punto che è sorto in loro il pensiero che potesse esserci una crisi dell’uomo, poiché si trovavano a dover vivere la più lacerante delle contraddizioni. Andarono in guerra come si va all’inferno, se è vero che l’inferno è la negazione di tutto. Non amavano né la guerra né la violenza: dovettero accettare la guerra e praticare la violenza. Sentivano odio solo per l’odio. E tuttavia dovettero applicarsi allo studio di questa implacabile disciplina. In flagrante contraddizione con se stessi, e senza che nessun valore tradizionale li guidasse, erano di fronte a quelli che per l’uomo sono i problemi più terribili. Insomma, abbiamo da una parte questa generazione che ho cercato di descrivere e dall’altra una crisi di dimensioni mondiali: una crisi della coscienza umana, che vorrei definire il più chiaramente possibile.
[...] Cerchiamo allora [..] di individuare i più chiari sintomi della crisi, che sono i seguenti:
-
Il terrore suscitato da una corruzione di valori tale che un uomo o una forza storica oggi sono giudicati non in termini di dignità umana, ma in termini di successo. La crisi odierna trova una chiara espressione in questo: che nessun occidentale è sicuro del suo immediato futuro, mentre tutti devono fare i conti con l’assai plausibile aspettativa di finire in una maniera o nell’altra fatti a pezzi dalla storia. Affinché quest’uomo infelice non soccomba dei suoi mali in un letamaio, come un Giobbe dei nostri tempi, bisogna prima di tutto eliminare l’ipoteca della paura e dell’angoscia, in modo che egli possa ritrovare quella libertà morale senza la quale non possono essere risolti i problemi che si pongono alla coscienza moderna.
-
La crisi ha la sua causa anche nell’impossibilità della persuasione. Gli uomini vivono, e possono vivere, solo conservando l’idea di avere qualcosa in comune, un’origine alla quale possono sempre tornare. Si pensa sempre che se si parla umanamente a un uomo le sue reazioni saranno anch’esse umane. Ma poi abbiamo scoperto questo: che ci sono uomini che è impossibile persuadere. Era impossibile per un deportato in un campo di concentramento persuadere le Ss dalle quali era picchiato che non dovevano farlo. E la madre greca non poteva convincere l’ufficiale tedesco che non era decente per lui farla morire di crepacuore: perché le Ss e l’ufficiale tedesco non erano più uomini, né rappresentavano degli uomini, ma un istinto elevato a idea o a teoria. La passione, anche se omicida, sarebbe stata meno malefica: perché la passione ha una sua durata, e un’altra passione, un altro grido strappato alla carne possono trovare ascolto. Ma un uomo capace di interessarsi vivamente alle orecchie che egli stesso aveva seviziate, non è un uomo mosso dalla passione: è come un teorema matematico che nulla può ostacolare o sviare.
-
La sostituzione dell’oggetto naturale con l’oggetto stampato. Intendo riferirmi alla crescita della burocrazia. L’uomo contemporaneo frappone sempre più fra se' e la natura una macchina astratta e complicata che lo costringe alla solitudine. È quando manca il pane che compaiono le tessere per il pane. I francesi ricevono solo 1200 calorie al giorno, e in compenso almeno sei diverse tessere annonarie con un centinaio di timbri. E così avviene dappertutto in un mondo dove la burocrazia non cessa di moltiplicarsi. Per venire in America dalla Francia, ho dovuto consumare molta carta in entrambi i paesi. Tanta carta che con essa avrei certamente potuto far stampare e distribuire qui largamente un numero tale di copie di questa conferenza da dispensarmi dal venire di persona. Per mezzo della carta, degli uffici, dei funzionari è venuto a crearsi un mondo dal quale è scomparso qualsiasi calore umano, nel quale un uomo non può entrare in contatto con un altro uomo se non attraverso un dedalo di scartoffie. L’ufficiale tedesco che parlava in modo consolatorio delle orecchie lacerate del mio amico sentiva di poterlo fare perché la sofferenza che aveva inflitta faceva parte della sua occupazione ufficiale, e perciò non c’era stato niente di male: in una parola, ormai moriamo, amiamo o uccidiamo per procura. Questo è ciò che va sotto il nome, se non m’inganno, di “buona organizzazione”.
-
La trasformazione dell’uomo in uomo politico. Non sono più possibili passioni private, ma solo collettive, cioè astratte. Ci piaccia o no, dobbiamo essere politici. Ciò che ora conta non è se si deve rispettare una madre o risparmiarle delle sofferenze; ciò che conta è se si sia contribuito al trionfo d’una dottrina. E il dolore umano non è più uno scandalo, ma solo il numero di un conto il cui terribile totale non è ancora calcolabile.
-
È chiaro che tutti questi sintomi possono riassumersi nella tendenza che possiamo definire come il culto dell’efficienza e dell’estrazione. Ecco perché l’uomo in Europa oggi prova solo solitudine e silenzio. Perché non può comunicare coi suoi simili in termini di valori comuni a tutti. E poiché non è più protetto da un rispetto per l’uomo basato sui valori dell’uomo, l’unica alternativa che gli resta aperta è se essere la vittima o il carnefice.
Questo è quello che la mia generazione ha imparato, e questa è la crisi che si è trovata e continua a trovarsi davanti. Abbiamo dovuto affrontarla con qualsiasi valore ci riuscisse di mobilitare: vale a dire con nessun valore, salvo quello che ci viene dall’assurdo in cui viviamo. Così abbiamo dovuto andare in guerra, affrontando il terrore senza consolazioni né certezze.
Sapevamo solo che non potevamo cedere alla forza bestiale che si era impossessata di ogni angolo d’Europa. Ma, insieme, ignoravamo, nella situazione in cui ci trovavamo, quali giustificazioni dare a questo nostro dovere. Anzi, i più avvertiti di noi sentivano di non trovare alcun principio nella coscienza per opporsi al terrore e rifiutare l’assassinio come mezzo.
Perché se non si crede in niente, se niente dà un senso, e non riusciamo a trovare un valore in niente, allora tutto è permesso e nulla importa. E allora non c’è né bene né male, e Hitler non aveva né ragione ne' torto. C’è chi manda milioni di innocenti al crematorio e chi si dedica all’assistenza dei malati. C’è chi con una mano riduce orecchie a brandelli e con l’altra ne lenisce il dolore. Chi può rassettare la casa in presenza di torturati. Chi onora i morti e chi ne fa spazzatura. Tutti questi comportamenti si equivalgono. E poiché abbiamo pensato che nulla ha un senso abbiamo dovuto concludere che ha ragione chi ha successo. Ebbene questo è così vero che ancora oggi ci sono non poche persone intelligenti ma scettiche che vi dicono che, se Hitler avesse vinto questa guerra, la Storia avrebbe reso onore alla sua causa e santificato l’atroce piedistallo sul quale egli sarebbe stato innalzato. E non c’è dubbio che la Storia, quale ora la comprendiamo, avrebbe santificato Hitler e giustificato omicidio e terrore, esattamente come facciamo noi tutti quando ci permettiamo di pensare che nulla ha un senso.
Alcuni di noi, per la verità, riuscirono a convincersi che, in mancanza di valori più alti, si poteva credere a un significato della Storia; e agirono sempre come se questa fosse la loro fede.
Dissero che la guerra era necessaria perché avrebbe liquidato l’era dei nazionalismi, preparando il periodo in cui agli imperi sarebbero succeduti, non importa se in modo cruento o no, la società universale e il paradiso in terra.
Ma in questo modo arrivarono alla stessa conclusione che avrebbero raggiunta se avessero pensato, come noi altri, che nulla ha senso giacché, ammesso che la Storia abbia un senso, questo non può che essere totale o del tutto nullo. Ora, essi pensavano e agivano come se la Storia obbedisse a una dialettica trascendente e come se noi tutti ci muovessimo verso uno scopo determinato. Pensavano e agivano, cioè, secondo il detestabile principio di Hegel: “L’uomo è fatto per la Storia, non la Storia per l’uomo”. Sta di fatto che il realismo politico e morale oggi dominante nel mondo deriva interamente, anche se spesso in modo inconsapevole, da una filosofia tedesca della storia per la quale l’umanità è in marcia e procede razionalmente verso un’armonia finale. Al nichilismo era stata sostituita una sorta di razionalismo assoluto; ma con i medesimi risultati. Infatti, se è vero che la Storia è determinata da una logica infallibile e fatale, se è vero — come postula questa filosofia tedesca — che necessariamente l’ordine feudale nasce dall’anarchia, e lo Stato nazionale dall’ordine feudale, e gli imperi dalle nazioni con lo scopo finale di una società mondiale, allora qualunque cosa favorisca questo processo predestinato è buona e gli accadimenti della Storia costituiscono altrettante verità incontrovertibili. E se questi accadimenti possono compiersi normalmente solo per mezzo di guerre, intrighi, omicidi e stragi, tutto ciò non può essere giustificato come buono o cattivo; ma solo come efficace o no.
Così gli uomini della mia generazione si sono trovati, nel mondo presente, di fronte a una doppia tentazione: quella di pensare che nulla è vero, e quella di pensare che l’abbandonarsi al corso fatale della Storia è l’unica verità possibile. E molti cedettero all’una o all’altra tentazione.
Così, il mondo resta nelle mani degli uomini di potere, e finisce per essere retto dal terrore: giacché se niente è vero o falso, buono o cattivo, se l’unico valore è quello dell’efficienza, allora l’unica regola da seguire è quella che ci impone di essere il più possibile efficienti, in una parola i più forti. E di conseguenza il mondo non è più diviso in giusti e ingiusti, ma in padroni e schiavi. Ha ragione chi domina. Ha ragione la portinaia, e torto la vittima della tortura. E l’ufficiale tedesco che ordina la tortura, e quello che la fa, e le Ss trasformate in becchini sono gli uomini “ragionevoli” di questo mondo. Guardatevi attorno e chiedetevi se le cose non sono ancora così. Siamo ancora presi nel cappio della violenza e ne siamo strangolati. In ogni nazione, e in generale nel mondo, diffidenza, risentimento, cupidigia, avidità di potere costruiscono un universo oscuro e disperato nel quale ogni uomo è forzato a vivere entro i limiti del presente (la sola parola “futuro” basta a scatenare tutte le sue ansie), alla mercé di forze astratte, svuotato e istupidito da una vita vissuta in fretta, privato della verità naturale, di ogni svago intelligente e delle gioie più semplici. Forse voi, abitanti di questa felice America, non lo vedete, o forse non vi è chiaro: ma gli uomini di cui parlo hanno visto per anni questo male, lo hanno sentito nella loro carne, lo hanno letto negli occhi delle persone che amavano; e dal fondo del loro cuore offeso è sorto un terribile moto di rivolta il cui successo non potrà che essere totale. Sono tormentati da troppe immagini e memorie mostruose per poter credere che la salvezza sarà facile; ma, insieme, sentono troppo profondamente l’orrore di questi anni per non volere che esso finisca. Ed è qui che nasce il loro vero problema.
Se è vero che i caratteri di questa crisi devono identificarsi nella volontà di potenza, nel terrore, nella sostituzione dell’uomo reale con quello politico e storico, nel dominio dell’astrazione e del fato, nella solitudine senza futuro: se tutto ciò è vero, allora per superare la crisi sono questi i caratteri che dobbiamo cambiare. Senonché la nostra generazione si trova di fronte a questo enorme problema senza aver niente da affermare. Infatti, la forza per combattere l’ha dovuta trarre dalla negazione. Era perfettamente inutile che ci dicessero: dovete credere in Dio, in Platone o in Marx, dal momento che ci mancava proprio questo tipo di fede. L’unica questione per noi era se accettare o no un mondo nel quale tutto si riduceva a scegliere tra l’essere vittima o carnefice. E naturalmente non volevamo essere né l’una né l’altro, giacché sapevamo nel più segreto del cuore che anche questa distinzione era illusoria perché in fondo eravamo tutti vittime: che alla fine assassini e assassinati si sarebbero trovati insieme in una medesima disfatta. In conclusione, il problema non era più semplicemente di accettare o no questa situazione, questo mondo, ma di determinare quali ragioni avessimo per opporci.
Ecco perché abbiamo cercato le nostre ragioni in quella stessa rivolta che ci aveva lasciati senza evidenti ragioni che ci facessero scegliere la lotta contro il male. Ci siamo, insomma, resi conto che non ci eravamo ribellati solo per noi, ma per qualcosa di comune a tutti gli uomini.
In che senso?
In un mondo senza valori, in quell’autentico deserto del cuore nel quale vivevamo, qual era veramente il significato della nostra rivolta? Era questa ad aver fatto di noi degli uomini che dicevano “no”. Ma nello stesso tempo eravamo anche uomini che dicevano “sì”. Il “no” lo dicevamo a questo mondo, alla sua fondamentale assurdità, alle astrazioni che ci minacciavano, alla civiltà della morte che ci vedevamo costruire attorno. Dicendo “no” affermavamo che questo processo era andato troppo oltre; che c’era un limite alla sopportazione. Ma, insieme, affermavamo anche in positivo tutto ciò che è al di qua di quel limite: affermavamo qualcosa che in noi respingeva l’offesa e che non poteva essere indefinitamente umiliato.
Certo, c’era una contraddizione che non poteva non farci riflettere. Avevamo pensato che il mondo viveva e lottava senza affermare nessun valore reale. E tuttavia combattevamo contro la Germania. Certi resistenti francesi che ho conosciuto, e che leggevano Montaigne in treno mentre trasportavano materiale clandestino di propaganda, erano la dimostrazione vivente della possibilità, almeno tra noi, di comprendere lo scetticismo pur avendo il senso dell’onore. E di conseguenza ciascuno di noi, per il solo fatto di vivere, sperare e lottare, affermava positivamente qualcosa. Ma questo “qualcosa” aveva un valore generale, che superasse l’opinione soggettiva, e che potesse servire anche ad altri come regola di condotta? La risposta è molto semplice. Gli uomini di cui parlo erano pronti a morire nella rivolta alla quale s’erano dati. E la loro morte avrebbe dimostrato che si erano sacrificati per una verità che trascendeva la loro esistenza personale, ed era oltre il loro destino individuale. Quando esseri umani venivano torturati in presenza di una portinaia, quando orecchie umane venivano metodicamente mutilate, quando madri erano costrette a condannare a morte i loro figli, quando i giusti venivano sepolti come animali, questi uomini con la loro rivolta proclamavano che era stato negato qualcosa che non apparteneva a loro soltanto, ma era un bene valido dovunque gli uomini siano realmente disposti alla solidarietà.
Sì, è stata questa la grande lezione di quegli anni terribili: che il torto fatto a uno studente di Praga riguardava anche l’operaio della banlieue parigina, e che il sangue versato sulle rive di un fiume dell’Europa centrale avrebbe portato un farmer del Texas a versare il proprio su una terra a lui sconosciuta, nelle Ardenne. E anche questo era assurdo, insensato, quasi impensabile.
Ma allo stesso tempo c’era in questa assurdità una lezione: che tutti eravamo coinvolti in una stessa tragedia, nella quale erano in gioco la dignità comune e una comunione di uomini che era importante difendere e rafforzare. Una volta stabilito questo, sapemmo come agire e scoprimmo come in una situazione di assoluta desolazione morale l’uomo possa ritrovare valori idonei a dar fondamento all’azione. E sapemmo che se la comunicazione tra uomini in reciproco riconoscimento di dignità era la verità, allora proprio questa comunicazione era in se' il valore da sostenere.
E gli uomini devono essere liberi perché la comunicazione si conservi continua, perché padrone e schiavo non hanno niente in comune, e con uno schiavo non si può parlare ne' comunicare.
Sì: la schiavitù è silenzio, il più terribile di tutti.
Ma per mantenere viva e durevole la comunicazione dobbiamo eliminare l’ingiustizia, perché non esiste contatto tra chi è oppresso e chi profitta dell’oppressione (anche l’invidia appartiene al regno del silenzio); e dobbiamo anche bandire la violenza e la menzogna, perché chi mente si chiude agli altri, e chi tortura e fa violenza impone silenzi irrimediabili. Di più, sul fondamento di quel semplice moto di negazione in cui era consistita la nostra rivolta dobbiamo costruire una moralità della libertà e della sincerità.
Sì, dobbiamo opporre al mondo dell’assassinio la comunicazione che abbiamo raggiunta; questa d’ora in poi è una certezza. E poi dobbiamo rafforzare oggi la nostra comunicazione, se vogliamo salvarci dall’assassinio. Ecco, ora lo sappiamo, questa è la ragione per cui dobbiamo combattere contro l’ingiustizia, la schiavitù e il terrore, perché sono questi i tre flagelli che impongono silenzio agli uomini, li dividono, impediscono di riconoscersi e di scoprire l’unico valore che li può salvare in un mondo disperato: la permanente fraternità di coloro che lottano contro il fato. Al termine di questa lunga notte, ora e per sempre sappiamo che cosa dobbiamo fare in questo mondo lacerato dalla crisi. Dunque che cosa dobbiamo fare?
-
Dobbiamo chiamare le cose col loro nome, e renderci conto che uccidiamo milioni di esseri umani ogni volta che ci permettiamo certi pensieri. Non si ragiona male perché si è assassini. Si è assassini perché si ragiona male. È così che si diventa assassini anche senza avere concretamente ucciso nessuno. La prima cosa da fare, allora, è rigettare, semplicemente, nei pensieri e nei fatti, ogni concezione “realistica” e fatalistica.
-
Dobbiamo liberare il mondo dal terrore di cui è pieno, un terrore che controlla tutto e impedisce la chiarezza delle idee. E poiché ho saputo che l’Onu sta tenendo un’importante sessione in questa città, potremmo suggerire che il primo testo scritto di questa organizzazione mondiale proclami, subito dopo il processo di Norimberga, l’eliminazione della pena di morte in tutto il pianeta.
-
La politica deve, per quanto possibile, essere riportata nei suoi giusti termini, che sono termini di contorno. Il suo fine non deve essere quello di fornirci un vangelo o un catechismo, né politico ne' morale. La grande sventura del nostro tempo è appunto che la politica pretenda di darci tutti insieme un catechismo, una filosofia completa e talora anche un modo di amare.
Ma il ruolo della politica è di tenerci in ordine la casa, non di occuparsi delle nostre questioni intime. Per quel che mi riguarda, non so se un Assoluto ci sia o no. Ma so per certo che non è un problema politico. L’assoluto non è un affare di tutti, ma di ciascuno singolarmente. E i tutti devono regolare i rapporti con i singoli in modo che ciascuno possa avere spazio interiore per interrogarsi sull’Assoluto. Senza dubbio la nostra vita appartiene agli altri, ed è giusto che la spendiamo per gli altri, se è necessario. Ma la morte appartiene solo a noi stessi. Questa è la mia definizione di libertà.
-
Passando ora dalla negazione all’affermazione, la quarta cosa da fare è cercare di creare valori positivi che possano conciliare pensiero negativo e possibilità di azione positiva. È un compito dei filosofi, che io posso solo accennare.
-
Infine, è necessario capire che questo atteggiamento richiede un universalismo per cui tutti gli uomini di buona volontà siano in grado di essere in rapporto e comunicare tra di loro. Per uscire dalla solitudine bisogna parlare: e parlare schiettamente, senza mai mentire per nessuna ragione, e dicendo sempre tutta la verità che si conosce. Ma la verità si può dirla solo in un mondo nel quale la verità sia definita e fondata su valori comuni a tutti. Non sta a un Hitler di decidere che cosa è vero e che cosa è falso. Nessun uomo, ne' oggi né domani, deve poter decidere che la sua verità è tanto buona da meritare di essere imposta agli altri. Solo la coscienza umana potrebbe pretenderlo: ma i valori fondanti di una coscienza di così ampia dimensione devono oggi essere ritrovati. La libertà che dobbiamo infine raggiungere è la libertà di non mentire mai. Solo così possiamo attingere alla conoscenza delle nostre ragioni di vivere e di morire. Questo è il punto minimale che abbiamo raggiunto. E forse non valeva la pena di andare tanto lontano per arrivarci. Ma, dopo tutto, la storia degli uomini è la storia dei loro errori e non delle loro verità. Probabilmente la verità, come la felicità, è totalmente semplice e senza storia.
Questo significa che siamo sulla giusta via per risolvere i nostri problemi? No, certo. Il mondo non è migliore, né più ragionevole. Non ci siamo ancora cavati fuori dall’assurdo. Ma almeno abbiamo una ragione per cambiare il nostro modo di essere: la ragione che fino a poco fa ci mancava. Il mondo sarebbe eterna disperazione se non fosse per l’uomo: ma l’uomo, con le sue passioni, i suoi sogni, la sua vita associata, esiste. Alcuni di noi in Europa hanno tentato di unire al pessimismo riguardo al mondo un profondo ottimismo riguardo all’uomo. Non proponiamo di fuggire dalla storia, perché siamo noi stessi nella storia. Proponiamo solo di lottare nella storia per preservare dalla storia quella parte dell’uomo che non le appartiene.
Penso di poter dire con certezza che dovremo sempre rifiutare di inchinarci agli avvenimenti, ai fatti, alle circostanze, a ricchezza e potere, alla storia come corre, al mondo come va. Vogliamo vedere la condizione umana come è. E come sia lo sappiamo ormai a fondo. È la condizione orribile che richiede carrettate di cadaveri e secoli di storia per provocare una minima modificazione del destino dell’uomo. La legge è questa. Nel XVIII secolo, per molti anni caddero teste come grandine in Francia, ma la grande rivoluzione attraversava i cuori di tutti, riempiendoli di entusiasmo e di terrore. Col risultato che all’inizio del secolo successivo la monarchia ereditaria fu sostituita dalla monarchia costituzionale. Noi francesi del XX secolo conosciamo fin troppo bene questa legge. Ci sono volute la guerra, le stragi, le migliaia di prigioni, lo spettacolo di un’Europa distrutta dal dolore perché qualcuno di noi intuisse finalmente due o tre cose che forse possono ridurre la nostra disperazione. Qui, è l’ottimismo che sarebbe stato scandaloso. Sappiamo che i migliori di noi sono morti perché hanno scelto di morire. E noi che siamo vivi dobbiamo riconoscere che lo siamo solo perché abbiamo scelto di fare meno di loro [...].
(Questo è il testo di una conferenza tenuta da Camus a New York nel 1946, di cui si è perduto l’originale francese. È stato tradotto e pubblicato in italiano in “L’informazione bibliografica”, n. 2, 1995.)
da “Lo straniero” rivista trimestrale diretta da Goffredo Fofi – anno II - numero 4 – autunno 1998
Le immagini sono tratte dal mio archivio
Oggi, parlare di giustizia sociale significa parlare di disponibilità delle risorse