Da sinistra a destra (seduti) Nicola Chiaromonte, Mary McCarthy, Robert Lowell.In piedi da sinistra: Heinrich Blücher, Hannah Arendt, Dwight McDonald, Gloria MacDonald.
Courtesy Vassar College Library & Bombsite Magazine
fonte: http://lemoviesnob.com/hannah-arendt-wunderbar/
Ho scoperto che il testo che condivido qui a seguito, si trova negli Annali d'Italianistica vol.19 - 2001, alle pagine 245-254.
Io l'ho trascritto dalla rivista Lo straniero anno 1 numero 2 inverno 1997/98 pag.103-112.
Si titola: La scelta delle "cose migliori" - Intellettuali e società di massa secondo Nicola Chiaromonte - di Giancarlo Gaeta (...un giovanotto all'epoca)
Credo sia nuovamente oggi un piccolo contributo per assorbire, lenire, il disagio di quei ormai pochi intellettuali che si chiedono Che cosa rimane.
Forse proprio da Che cosa rimane sono partito, pur essendo io solo un operaio, sempre disoccupato, sempre in incostante formazione.
A circa un anno dalla chiusura della rivista di Fofi, vale la pena di leggere ancora le motivazioni dalla sua lettera, convinto, che; tramutare le letture (le idee) in comportamenti e in azioni, oggi, sopratutto oggi, sia necessario.
Ci sono quei momenti in cui non abbiamo diritto ad essere stanchi, questi "momenti" sembrano oggi alle porte.
Questi signori e sopratutto signore sulla foto, hanno usato gran parte della loro esistenza ad insegnare ad imparare, ad insegnare a pensare, certamente ci sarebbe stata anche la Weil, se non fosse stata così determinata a sperimentare sul campo, a privilegiare i comportamenti e le azioni, a verificare con questi le teorie, ad immergersi nella realtà, spegnendo velocemente il suo corpo fisico, consapevole? di quello che sarebbe rimasto di lei per sempre.
Inserisco anche un'altra fonte della foto, in quanto si possono leggere cose interessanti in merito ad Hannah Arendt e Mary McCharty, ricordo che la prima è quella della frase in piazza tribunale sul bassorilievo fascista a Bolzano, "nessuno ha il diritto di obbedire" andata a sostituire quella di Mussolini: Credere Obbedire Combattere, operazione che ha fatto discutere.
Non è stato per me di facile lettura, ma poi trascrivendolo, rileggendolo, perché sentivo, una specie di odore, che ci fosse qualcosa di importante da capire.
Buona lettura!
La scelta delle “cose migliori”
Intellettuali e società di massa secondo Chiaromonte
di Giancarlo Gaeta
“Per cominciare, le cose appaiono tali quali sono e non c’è scampo. Per continuare, è in questa apparizione incongrua che sta il mistero dell’esistenza, il suo carattere divino” (Che cosa rimane, Il Mulino 1995, p. 57). Della libertà di vedere le cose come sono, nel loro manifestarsi irriducibile, frammentato, discontinuo e, dunque, incongruente, Nicola Chiaromonte ha fatto la cifra del suo impegno intellettuale. Non certo per spirito di nichilismo; al contrario, come leva per accedere a “l’immagine di un significato possibile” (41), a una visione sempre interiore e, dunque, individuale, del mistero dell’esistenza umana. Perché “ogni uomo, assolutamente ognuno, porta in sé... una forma che domanda di nascere, una domanda che esige risposta, una parola che vuole essere pronunciata, il possibile significato del mondo in cui egli vive, del mondo sic et simpliciter. Ed è da questo punto che comincia ogni discorso sensato sulla condizione dell’uomo. E nessuna parola che non contenga implicita o esplicita, una chiara e semplice risposta a questa domanda, una formulazione di questa parola, una forma di questo fantasma tormentoso ha il minimo senso o può essere comunque accolta come significativa” (77—78).
C’è dunque uno stato di insensatezza delle cose corrispondente al puro stato di necessità, che certo non si manifesta sempre allo stesso modo in ogni epoca e in ogni luogo, e tuttavia sempre di nuovo in ogni situazione storicamente data; e c’è altresì radicata in ciascuno una domanda di senso, vale a dire il sentimento di una mancanza e l’aspirazione a un’immagine del mondo “come potrebbe essere”. Ma non c’è nella visione di Chiaromonte opposizione tra queste due realtà, e dunque tra necessità e libertà, tra sottomissione alla necessità “naturale” e bisogno di “fare senso”, perché la seconda non si dà senza la prima se non come fuga nell’immaginario o come pretesa ideologica; ma è sempre dare senso a ciò che si pensa e si agisce nella situazione data, che è quella che è; essendo ciascuno implicato in una inestricabile catena e concomitanza di fatti prossimi e remoti, e che tuttavia mai appaiono come esaustivi della realtà. Cosicché “nel pensiero che si pensa, nell’azione che si compie, nel fine che si vuole raggiungere, non è solo implicito come seme nella pianta ciò che va oltre quel pensiero e quell’azione e gli dà senso. È anche implicito inevitabilmente il senso stesso, una visione d’avvenire che è visione della natura delle cose — dunque una affermazione del ‘cosmo’— e, in questa visione, l’assoluto, il ‘dio’ su cui la visione si fonda” (56). Ed è poi di qui, da questa visione d’avvenire, che si genera “la capacità di esprimere utopie, cioè, alla lettera, disegni di cose che non sono in alcun luogo”, “immagini risolutive di un mondo ideale”, e perciò il “mito, nel senso di immagine tutta esistente e spiegata, veramente obbiettiva, cioè concreta di certezza” (Il tarlo della coscienza, Il Mulino 1992, p. 87—88).
Già questo minimo riferimento al linguaggio di Chiaromonte, costellato di termini quali necessità, libertà, senso, visione, utopia, ideale, mito, basta a segnalare l’anomalia della sua posizione nell’universo intellettuale contemporaneo. Un linguaggio antico, fermo nel registro platonico, impermeabile al compromesso, deciso a dire sempre di nuovo l’essenziale, affatto timoroso di risultare quanto mai inattuale.
Il fatto è che il suo dire si fonda sulla certezza che esiste “una regola stabile per giudicare di qualsiasi ordine reale”, certezza non puramente intellettuale bensì maturata nella coscienza di soffrire la situazione del proprio tempo abbastanza per ritrovare in se stesso quella regola e farne metro di giudizio per l’epoca. Basta al riguardo leggere le pagine scritte in morte di Albert Camus; il ricordo vivido del loro incontro ad Algeri nel 1941, il riconoscimento l’uno nell’altro dei “segni della sorte”, dalla cui sopportazione sarebbe nata l’opera di entrambi. Del se stesso di allora, Chiaromonte ricorda: “Ero tutto occupato da un solo pensiero, e quello solo m’importava: che si era giunti all’anno zero dell’uomo, che la storia era insensata e solo ciò che dell’uomo rimaneva fuori dalla storia, esterno, estraneo, impenetrabile al turbine degli eventi, aveva un senso; se, tuttavia, esisteva” (218).
Di tale questione, riconosce Chiaromonte, il grande scrittore francese “si era impadronito e l’aveva portata a conclusioni estreme e lucide: era riuscito a dire, in un suo modo febbrile e con un discorso continuamente teso come un filo di rasoio, perché, malgrado il furore e l’orrore della storia, l’uomo è un assoluto, e a indicare con esattezza dove fosse, secondo lui, quest’assoluto: nella coscienza, anche se chiusa e muta, nel tener fede a se stesso, anche se condannato dagli Dei a ripetere in eterno la stessa vana fatica” (219). Eppure non è azzardato aggiungere che egli stesso ha saputo dare una risposta non meno acuta e preziosa, che si nutre della stessa certezza, quella della “trascendenza dell’uomo rispetto alla storia”, ed esprime a sua volta la volontà di “contestare direttamente lo stato attuale dell’uomo in nome delle esigenze di una coscienza rigorosa, non attenuate da considerazioni mondane” (220), ma altresì capace di una più ampia comprensione della situazione presente e di una risoluzione non puramente volontaristica.
Di tale sua comprensione mi limito qui a porre in evidenza quello che è forse l’aspetto più ostico e sconcertante, vale a dire l’osservazione di ciò che Chiaromonte chiama significativamente “la situazione di massa” e della responsabilità degli intellettuali nel dare a tale situazione fondamento ideologico e culturale. Della questione si occupa espressamente l’ampio saggio pubblicato sul primo numero di “Tempo presente” nell’aprile del ’56: La situazione di massa e i valori nobili. Come si intuisce dal titolo, oggetto primario della riflessione di Chiaromonte non è l’avvento della “società di massa”, che in quanto fenomeno storico di importanza epocale non può che essere riconosciuto come dato di fatto, di cui si può rendere conto in termini di cause materiali, ovvero descrivere nei suoi caratteri e meccanismi ed effetti sulla vita individuale ed associata. Ma infine si tratta pur sempre di un fenomeno storico, e dunque ambiguo e contingente come tutti i fatti della storia umana; del quale di volta in volta ciascun individuo, da solo o con altri, può solo fare il bilancio per valutarne benefici e costi, e secondo da che parte penderà la bilancia ci si potrà assumere la responsabilità di agire in una direzione piuttosto che nell’altra, credendo con questo di preoccuparsi in concreto del bene pubblico.
“Giacché — scriveva Chiaromonte qualche anno prima ad Andrea Caffi — il ‘buon cittadino’ crede nella realtà della coscienza umana, e crede anche che i mutamenti reali appartengono alla sfera di ciò che gli uomini credono quanto al reale, e non a una mitica realtà oggettiva. La ‘realtà’ — egli pensa — se si parla seriamente, resta sempre la stessa: questo mondo sublunare che niente, nell’esperienza, ci promette trasformabile, mentre tutto ce lo indica semplicemente mutevole. Questo mondo è interamente e per sempre dato — con i suoi limiti. La nostra volontà vi può mutare ben poco, perché ben poco sappiamo della radice dei mutamenti sociali, e perfino assai dubbio che i mutamenti sociali importanti (i pochi ‘progressi’ o epoche ‘felici’ di cui si ha conoscenza) siano nati da una volontà cosciente e guidata” (109).
Ciò che pertanto preoccupa Chiaromonte, e occupa il centro della sua riflessione, non è il processo di massificazione in quanto fatto materiale contingente, bensì “la situazione morale per cui il semplice fatto del ‘numero’ assume una importanza tanto soverchiante da diventare una specie di valore, un principio più eflicace di ogni altro, e quasi un bene in se'” (121). Cosicché la questione prima ancora che essere di ordine sociale e politica è di ordine morale; essa concerne precisamente la responsabilità delle élite, la loro propensione a “massificarsi insieme alle masse, o addirittura prima delle masse” (120), nella misura in cui da un certo momento in poi hanno concepito “il rapporto tra la cultura e la vita collettiva come un rapporto di subordinazione di quella a questa” (122), e perciò volgendo le spalle alla tradizione umanistica di matrice platonica. Nella storia del pensiero politico occidentale andrebbe pertanto segnato uno spartiacque, che Chiaromonte scorge, con l’aiuto di Hannah Arendt, nel convincimento di Marx che “la filosofia e la verità, lungi dal trovarsi fuori dagli affari umani e dal mondo reale, sono situati precisamente dentro di essi, e non possono essere realizzate che nella sfera della vita collettiva, mediante la formazione dell’uomo socializzato” (da Traduzione e modernità, …..1954, p. 121). E dunque, chiosa Chiaromonte, “è imposto all’intellettuale il dovere di sentirsi non già libero, bensì in stato di necessità, e di sottomettere quindi i suoi pensieri alle stesse condizioni materiali che pesano collettivamente sui suoi simili” (123). L’aver pensato a fondo l’idea di necessità e, ancor più, averne fatto il vincolo indissolubile tra intellettuale e massa è ciò che, per Chiaromonte, denota in profondità il carattere rivoluzionario del pensiero di Marx, a prescindere dalle sue teorie economiche e sociali.
Vale la pena soffermarsi su questo punto per ricordare che sarà proprio Hannah Arendt, con la pubblicazione nel ’58 di The Human Condition (uscito poi in Italia con il titolo Vita activa), a cogliere nell’idea di necessità il carattere distintivo del pensiero politico moderno. Carattere determinato dalla soppressione della distinzione operata dai Greci tra sfera sociale e sfera politica, distinzione che in certa misura ancora permaneva nella società feudale tra sfera sociale e sfera religiosa. Mentre da Marx in poi il compito della politica non sarà più quello di formare l’uomo in una sfera superiore rispetto a quella sociale, ma all’interno stesso di questa, riconosciuta come l’unica reale. Da quel momento pensare politicamente significa pensare in funzione del sociale; Platone avrebbe detto: pensare i pensieri del grande animale, della bestia sociale. Peraltro, ci spiega Arendt, la soppressione della distinzione non ha prodotto una concezione più alta e comprensiva della vita associata, ma si è risolta nella riduzione della sfera politica alla sfera sociale, che per i Greci coincideva con la sfera del privato, della vita domestica soggetta ai vincoli economici e ai rapporti di forza. Si è pertanto ridotta la sfera della libertà a quella della necessità. Vale a dire che noi moderni non abbiamo elaborato una concezione del sociale sostanzialmente diversa da quella dei Greci, ci siamo piuttosto limitati a estenderne l’ambito dalla sfera privata a quella pubblica. Di qui proviene, scrive Arendt, la nostra grande difficoltà a rappresentarci “la decisiva distinzione tra il dominio pubblico e dominio privato, tra la sfera della polis e la sfera domestica e della famiglia e, infine, tra le attività relative a un mondo comune e quelle relative alla conservazione della vita, distinzione su cui si basava tutto il pensiero politico antico, che la considerava come evidente e assiomatica. Nel nostro modo di pensare la distinzione si è completamente oscurata, perché noi vediamo i popoli e le comunità politiche riflessi nell’immagine di una famiglia le cui faccende quotidiane devono essere sbrigate da una gigantesca amministrazione domestica su un piano nazionale”( Vita activa, 22).
In questo senso, che l’economico dovesse finire con l’imporsi a tutto e a tutti era già inscritto nella riduzione moderna del politico al sociale, cioè al regno della necessità, che è innanzitutto necessità economica, lotta per la sopravvivenza e per l’accrescimento, necessariamente a scapito di altri. Con in più il paradosso che la raggiunta libertà dal bisogno economico non consente l’accesso ad una superiore sfera di libertà; perché la libertà, situata tutta nel sociale, è essenzialmente libertà dal bisogno, ovvero dai sempre nuovi bisogni creati dalla società. Tutto il resto, cioè tutto ciò che in qualche modo sfugge alla presa diretta del sociale, è spinto a ritirarsi in una sorta di terra di nessuno, in un limbo della cultura, che dal punto di vista del sociale può essere accettato come luogo dell’evasione o, nel migliore dei casi, come riserva di un patrimonio culturale che, all’occorrenza, può essere utilizzato in vista della produzione di una qualche visione generale che faccia argine al pericolo di sprofondare in un pragmatismo asfissiante.
Trovo assai rilevante e significativa la sintonia tra Chiaromonte e Hannah Arendt, a prescindere dal rilievo degli influssi, nella misura in cui consente di apprezzare meglio una corrente di pensiero tenuta fin qui ai margini. Un pensiero della crisi che si fonda su una visione complessiva della civiltà occidentale e che mira a ricostituire il senso della politica a partire dalla visione della “condizione umana” piuttosto che da una qualche teoria politica. E peraltro lo stesso Chiaromonte a rendere esplicita tale sintonia: “Hannah Arendt ha ragione di dire che, rovesciando radicalmente il rapporto classico fra il pensiero e l’azione come egli ha fatto, Marx ha segnato la fine di una tradizione, annunciando una crisi che ancora dura e che è, in primo luogo, la crisi della cultura e dei ‘valori nobili’ nel mondo contemporaneo” (124).
I “valori nobili”, vale a dire i valori conformi “all’ideale classico dell’aristocratico e del filosofo: l’uomo cosciente, ragionevole, libero perché padrone di sé”, che Ortega y Gasset contrapponeva in un saggio famoso all’uomo massa, l’uomo che ha come “principio primo che nessuno è superiore a nessun altro” (119).
Tuttavia, a differenza di Ortega, Chiaromonte non polarizza il contrasto, non contrappone un ideale che sa tramontato alla realtà onnivora della situazione di massa. Pone invece con forza la questione del “chi è l’uomo” nella situazione di massa, cosa ne è della sua natura. La stessa domanda da cui muove la ricerca di Hannah Arendt, anche se le risposte sono significativamente diverse.
In effetti, nel pensiero di Chiaromonte non ha luogo la distinzione arendtiana tra vita attiva e vita della mente, e dunque la distinzione tra la sfera dell’agire in comune e la sfera della vita contemplativa che si svolge nell’interiorità dei soggetti. Di conseguenza l’epoca moderna non è vista dall’esterno, fenomenologicamente, e criticata in rapporto a un modello concettuale (come quello esemplato sulla polis greca), bensì riconosciuta per ciò che essa è, la situazione di massa a cui nessuno può sottrarsi nella vita attiva e che peraltro è in perenne, insolubile conflitto con l’impulso umano a trascendere l’universo sociale. In altri termini, per Chiaromonte è politicamente decisiva la vita della mente, la sua capacità di volgersi alle “cose migliori”, il suo bisogno di “dare senso”, la sua forza utopica. Ciò che pertanto differisce non è la valutazione del tempo presente, il suo essere nient’altro che sociale, dove la politica è ridotta ad amministrazione dei molti da parte di pochi, dove ogni attività umana è subordinata all’imperativo del consumo e il pensiero è indotto a esprimersi per sommi capi. Ciò che differisce è piuttosto, direi, l’atteggiamento morale rispetto a tale situazione, che non ci si può limitare a guardare dall’esterno, o meglio dall’alto del mondo dei valori nobili; e infatti: “Una situazione così viziosa non muta per virtù di idee pure, né di colpo, bensì unicamente ‘secondo l’ordine del tempo’, a forza di soffrire in comune la sorte comune, cercando di comprenderla” (141).
Dunque è cosa buona e necessaria crearsi dei modelli, ovvero delle immagini del mondo come potrebbe essere o come forse è stato in qualche rara circostanza storica, poiché non c’è altro modo di guardare criticamente al presente. Ma senza dimenticare che “giudicare non è applicare una sapienza codificata: è rispondere in modo intellettualmente appropriato e giusto alla situazione in cui si è coinvolti e che mette in gioco le nostre passioni come le nostre idee” (Che cosa rimane, 47).
Così, della teoria politica esposta da Hannah Arendt in Vita activa, si potrebbe dire ciò che Chiaromonte dice dell’utopia platonica rappresentata ne La Repubblica: l’essere un modello, una “statua di parole”; non dunque un’idea da realizzare, ma un “puro oggetto di esercizio per la mente, essendo ben inteso che la mente non può poi, a sua volta non influenzare il corpo, modificandone la disposizione” (52).
Senonché, è proprio della situazione di massa il rifiutare, o quantomeno ignorare ogni forma intellettuale che non si possa mettere in pratica, non produttiva di fatti misurabili. Di qui l’estrema ambiguità della situazione in cui si viene a trovare l’intellettuale, ambiguità nella quale peraltro si riflette potenziata quella che l’individuo comune sperimenta rispetto al proprio agire: “L’individuo che, nel suo lavoro, in politica, nelle circostanze della vita associata, si piega ad agire in un dato modo per necessità: perché ‘non se ne può fare a meno’, piuttosto che per convinzione, non nega, agendo così che sarebbe meglio poter fare quello che si fa con la persuasione di fare cosa buona e utile. Egli si sente semplicemente costretto a rinviare, per così dire, la questione del bene e del male” (Il tarlo della coscienza, 138). Ovvero, la situazione è tale per cui la questione del bene e del male si trova perennemente sospesa di fronte alla necessità per ciascuno di corrispondere momento per momento, nell’infinito variare delle circostanze, alle ragioni della convenienza, senza più curarsi se, agendo come agisce, si trovi o meno nel vero. Né se ne può curare, se vuole, seppure a costo di un certo disagio morale, seguitare a occupare il suo posto nella società, e in definitiva sentirsi riconosciuto almeno come un numero. Quanto all’intellettuale, l’ambiguità della sua condizione è accresciuta dal conflitto tra la consapevolezza di essere depositario di una tradizione culturale fondata sulla convinzione che esiste “una regola stabile per giudicare di qualsiasi ordine reale”, e quella di essere parte, come tutti, della massa, se non altro perché “siamo tutti costretti a servirci del linguaggio corrente, e tanto più quelli che provano più forte il desiderio di comunicare con i loro simili è di rivolgere il loro discorso alla comunità in quanto tale” (140). E dunque nutrire nel privato pensieri e valori, orientare la propria mente e il proprio spirito verso le “cose migliori”, è certo d’importanza vitale; ma occorre sapere che la loro comunicazione effettiva, vale a dire non puramente verbale, è resa impossibile nella società di massa, a tal punto una parola ricca di pensiero, cioè di contenuto reale, confligge con lo stato d’irrealtà della condizione comune. Così, si racconta che quando Natalia Ginzburg prendeva la parola alla Camera si faceva un rispettoso silenzio; si prestava cioè ascolto alla testimonianza della parola, ben consapevoli della sua inefficacia pratica, più o meno come la domenica mattina si va in chiesa ad ascoltare il Vangelo.
Soffrire di “una situazione estrema”, diviso com’è tra il desiderio di trasmettere le ragioni e le verità di una tradizione perduta, e la consapevolezza di “esistere ed operare in una situazione nella quale lui stesso non ha che un rapporto equivoco e dubbio con la tradizione” (141), tale sembra essere per Chiaromonte l’unico compito efficace che l’intellettuale può assumersi nella società di massa. Un compito che per l’essenziale consiste nel “dire il vero sulla situazione senza presumere di possedere lui una verità che agli altri non è data” (140). Non è un compito da poco, se si pensa che gli viene così restituito il suo ruolo di mediatore tra passato e presente, tra ciò che è e ciò che potrebbe essere, e dunque di mantenere vivo quanto meno il dubbio che la totalità della realtà umana debba risolversi nel sociale.
Ma se il compito dell’intellettuale è dire la verità in situazione, soffrendo la situazione pur senza esserne assorbito, allora bisogna riconoscere con Chiaromonte che, almeno dal 1914 in poi, la grande maggioranza degli intellettuali europei lo hanno ignorato se non scientemente combattuto in nome delle superiori ragioni della società e della storia. Ragioni necessariamente contrarie allo spirito critico e all’esigenza di libertà del moderno intellettuale europeo, e che in effetti si sono risolte nell’accettazione di un rapporto di complicità con il potere, attuale o atteso che sia; finendo con l’assolvere la funzione di “fulcro del conformismo”, diventando infine “il migliore e più utile strumento della tirannia moderna, quale sia il nome di cui tale tirannia si fregi” (154). Insomma, si è realizzato ciò che Marx aveva teorizzato, ma l’effetto che ne è sortito è opposto a quello che egli aveva preconizzato. Mettendosi al livello della condizione comune, l’intellettuale altro non ha potuto fare che conformarsi alle esigenze e dinamiche proprie del corpo sociale, ne ha subito la logica nel momento stesso in cui ha preteso di interpretarne lo spirito rivoluzionario, progressivo, innovatore. D’altra parte l’ideologia rivoluzionaria ha lungamente coperto la vera rivoluzione in atto, quella che ha condotto l’individuo a “emanciparsi da ogni teologia e da ogni ordine intellettuale superiore”, cosicché esso si trova oramai “provvisto di una coscienza autonoma non più soggetta a nessun’altra autorità tranne le sollecitazioni della propria natura. Questo mette naturalmente detto individuo libero e autonomo direttamente alla mercé dei meccanismi capaci d’influire sulle sue sollecitazioni e decisioni”; lo mette cioè in una situazione tale per cui, oggi, può essere reso schiavo anche in nome della libertà, e di fatto lo è. (163-164)
“La società ha preso il posto di Dio”: è la lapidaria conclusione enunciata da Chiaromonte in una delle sue ultime pagine (Credere e non credere, Il Mulino 1993, p. 203).
Idolatria della società e insieme idolatria della storia. Alla prima oramai tutti appaiono asserviti, avendo sperimentato che necessariamente l’ideale settecentesco della “massima felicità del maggior numero” può realizzarsi solo a prezzo della “massima servitù del maggior numero”, “giacché, al fine di assicurare non diciamo la felicità.... ma il benessere almeno apparente del maggior numero possibile d’individui, bisogna evidentemente che tutti servano questa causa e si sottomettano alle condizioni necessarie a raggiungere questo scopo” (203). Alla seconda poi sono in specie gli intellettuali ad aver reso culto in questo secolo, e questo come conseguenza, paradossalmente, del venir meno della fede ottocentesca nel corso della storia, la quale comportava che “il significato dell’esistenza individuale consistesse precisamente nel moto stesso della storia attuale dell’umanità verso un compimento, e in esso si esaurisse” (192). Ma anche dopo che la catastrofe della prima guerra mondiale ebbe resa impraticabile quella fede, essa non morì del tutto ma si trasformò nella fede nei fatti compiuti. Non potendo più credere a un finalismo della storia, incapaci o riluttanti a produrre a partire da se stessi un’immagine del mondo, piuttosto che dichiarare il non senso della storia, si è attribuito “valore, in politica come in arte, e in arte come nella condotta privata, solo alla volontà di compiere fatti. Fede o non fede, chi compie fatti ha ragione” (193).
Ha ragione, perché si crede che l’azione che s’impone come fatto compiuto contiene in se' tutto il bene e tutto il vero possibile, e dunque ciò che conta è stare sui fatti man mano che essi si producono; fatti che, osserva Chiaromonte, “non sono solo tecnici, economici o politici, ma anche (e soprattutto) le forme della sensibilità e la vita intellettuale, coinvolgendo la vita della cultura in un automatismo che, applicato a un tal campo, è inevitabilmente mortifero: l’automatismo della ricerca del ‘nuovo’, il quale si riduce in realtà a un continuo segnare il passo nel disordine” (195).
All’osservazione di tale mutamento nella vita intellettuale, Chiaromonte ha dedicato una parte consistente del suo studio. Ne sono testimonianza i Taccuini e gli ampi saggi dedicati agli scrittori tra otto e novecento, da Stendhal e Tolstoj a Martin du Gard, Malraux, Camus, Silone, Mallarmé, Pasternak, Moravia. Saggi che ruotano tutti intorno alla duplice e intrecciata questione del rapporto tra l’arte e il mondo, tra l’individuo e la storia. Il passaggio è ancora una volta segnato per Chiaromonte dal 1914. Ne La certosa di Parma come in Guerra e pace, la rappresentazione dell’individuo nella storia si risolve nella negazione di quest’ultima; la Storia non esiste, esistono gli individui e l’intreccio infinito delle situazioni in cui essi si trovano a vivere; esistono solo, a propriamente parlare, delle storie singole, o meglio soltanto quella storia che risulta dall’intreccio di vite individuali, il cui senso non è rintracciabile nell’artificio delle causalità storica ma solo nella coscienza dell’artista che ne dà la rappresentazione. Cosicché una Storia razionale potrebbe darsi solo dal punto di vista di Dio, e cioè “come intreccio di destini tutti chiaramente indirizzati e prestabiliti — tutti concorrenti a un ultimo fine razionale e pacificante” (Che cosa rimane, 80). Il che non conduce di per sé a negare che vi siano degli assoluti dal punto di vista dell’uomo, ma che essi, non discendendo da alcuna logica soprannaturale, sono riconosciuti come “veri perché sperimentati veramente nel contesto quotidiano, necessari all’esistenza, ‘buoni’” (17).
La verità delle rappresentazioni storiche di Stendal e di Tolstoj sta dunque nella coscienza che l’artista ha della realtà presente del mondo, ovvero nel riconoscimento del “rapporto tra l’oggetto che egli fabbrica e il mondo per il quale lo fabbrica” (Il tarlo della coscienza, 244).
Ma basta passare da Tolstoj a Malraux per misurare in tutta la sua estensione il mutamento conseguente al 1914 per quanto concerne la vita intellettuale: “Il rifiuto della sfera privata in Malraux è estremo e comprende il rifiuto dell’interiorità nel senso di Kierkegaard. Per lui, l’uomo moderno ha perduto ogni diritto a volgersi verso una qualsiasi ‘realtà spirituale’ o intima... La verità è nella direzione opposta: nel riconoscimento che la situazione contemporanea è una situazione estrema nella quale l’individuo non può separare il proprio destino da quello della civiltà europea e dei suoi valori” (Credere e non credere, 133). In altri termini la verità dell’uomo contemporaneo europeo è nell’azione storica, nella sua volontà e capacità di identificarsi con essa, tagliando corto ai pensieri, e imponendo l’evidenza dei fatti. E questo non a partire da una qualche visione provvidenziale della storia ma in nome della storia pura e semplice, della storia come prorompere degli eventi, come urto delle forze. Cosicché, scrive Chiaromonte, i personaggi di Malraux “rappresentano, spinta ai limiti dell’assurdo, la grande eresia del nostro tempo: il tentativo di dominare la Forza facendosi coscientemente suoi servi e strumenti” (143).
Certo altri, come Camus o Pasternak, sono ben lontani dalla visione di Malraux, anzi la loro opera ne esprime il rifiuto, e tuttavia l’ombra possente della storia si stende anche sulla loro arte, sia pure come ciò contro cui occorre rivoltarsi o come l’illusione momentanea di una imprevista liberazione. Il sentimento della mostruosità della storia e insieme il timore che la sua negazione precipiti nell’assoluto del non senso sembra segnare, nella lettura di Chiaromonte, la vita intellettuale tra le due guerre e oltre, e infine sfociare, nei nostri tempi, nell’arte dell’informe, ovvero nella “produzione di oggetti di qualità specialissima offerti al godimento di chi sa apprezzarli”, a prescindere dalla domanda circa la loro necessità rispetto “alla situazione attuale dell’individuo, alla realtà presente del mondo e alla coscienza che se ne può avere” (Il tarlo della coscienza, 244—245). Dunque un’arte che, rendendosi indifferente all’opposizione del bene e del male, ha definitivamente rinunciato alle ragioni del proprio esistere, che è di esprimere la condizione umana.
Che cosa dunque rimane ai giorni nostri di una cultura millenaria? Ben poco, in verità, ma quel poco è pur sempre l’essenziale: “Rimane, se rimane, la capacità di mantenere che ciò che è bene è bene, ciò che è male, male, e non si può fare che sia diversamente (e non si deve fare che appaia diversamente)” (Che cosa rimane, 9).
Rimane, aggiungo, la certezza che la verità esiste ed è desiderabile, che il bene è un bisogno e un’aspirazione radicati nell’intimo di ciascuno, “un grido muto”, diceva Simone Weil.
Dalla rubrica “persuasioni”
Lo Straniero anno 1 numero 2
inverno 1997/98
pagina 103