Quasi cent’anni fa, quando ogni villaggio aveva una chiesa, ogni chiesa aveva un pulpito in stile barocco e su ogni pulpito c’era un prete che raccontava ai fedeli i fatti della Bibbia e dei Vangeli.
Nel paese di Siligo, a circa 30 chilometri da Sassari, era parroco Babbai Maiale, il quale diceva messa in sardo (come tutti i preti di allora) e raccontava a suo modo le Sacre Scritture, mescolando burberamente storia e leggenda e insaporendo i fatti con salaci pettegolezzi paesani.
Mia madre, Amelia Piredda, che lo conobbe da bambina ed era una Mastra ’e contascias, maestra di fiabe, non lo descrisse mai fisicamente, perché un buon narratore popolare non definisce mai i contorni fisici dei suoi eroi, ma lascia all’ascoltatore piena libertà di immaginazione.
Dai suoi racconti, noi immaginavamo Babbai Maiale non molto alto, ma magro, ieràtico, dal viso arcigno e un po’ rubizzo, con due folte sopracciglia sempre corrucciate e due occhi di fuoco che si sforzavano di trapassare da parte a parte gl’improbabili peccatori silighesi, i quali però se la ridevano sotto i baffi, pur mantenendo il sacro rispetto per la sua funzione, perché con i preti no si buffonat, non si scherza affatto.
Giacché i preti — si crede a Nuoro e nei paesi circostanti — hanno la potenza di fare qualsiasi male, a chiunque, scomunicando sul breviario. Ciò si dice toccare a libru (...). i sacerdoti, per mezzo dei loro libri sacri, son creduti quasi onnipotenti.
Però, usandone con malizia o per odio personale o per vendette pagate, si dannano in animo e corpo, cioè il demonio, che li ha favoriti, si impadronisce, dopo morte, persino del loro corpo.(1)
Quando mia madre si accingeva a raccontare gli aneddoti di Babbai Maiale, le rughe degli occhi incominciavano a ridere e le labbra le si sollevavano da un lato della bocca, in un sorriso tra l’ironico e il nostalgico.
Ma ciò che colpiva di più era la strana voce “nasina”, da vecchio scorbutico con le adenoidi, con cui pronunciava le battute del vecchio parroco che rivelava le origini thiesine (anzi, thiezinas) di Babbai Maiale.
Secoli e secoli di campanile, vissuti tra l’ironia contadina dei silighesi e l’altero distacco borghese degli abitanti della vicina cittadina di Thiesi, hanno scavato tra i due paesi solchi ricolmi di reciproci sfottò, a cui ha sempre fatto da provvidenziale cuscinetto la presunta quanto del tutto infondata ingenuità degli abitanti di Bessude, messo a cavallo tra i due grossi centri del Meilogu (la “Terra di mezzo”, nel cuore del Logudoro).
Il rapporto di Babbai Maiale con i silighesi appariva improntato al reciproco rispetto e alla collaborazione: nel senso che i parrocchiani s’impegnavano a mantenere gli scarsi beni della chiesa (l’orticello, il pollaio, un piccolo vigneto, eccetera), mentre il parroco sovrintendeva alle loro anime, impedendo che si dannassero.
Tutto ciò, ovviamente, non vietava al burbero parroco di fustigare con impeto inquisitorio la “naturale” propensione dei paesani a su peccadu mortale, al peccato mortale, «chi est comente sa meldha puddina in s’impedradu, chi non nd’essit mai!», che è come la cacca di gallina nel selciato, che non va mai via.
Ma neppure impediva ai suoi parrocchiani di ridacchiare delle sue invettive, sia pure in privato, all’uscita, subito dopo l’Ite, Missa est.
Ma il meglio di sé il buon Babbai Maiale lo dava nell’interpretazione delle Sacre Scritture e soprattutto del Vecchio Testamento.
Ecco, ad esempio, come fu che il grande patriarca Noè — su cui, com’è noto, nostro Signore aveva puntato tutte le sue carte per far sparire per sempre il male dalla faccia della terra, grazie al Diluvio Universale — secondo Babbai Maiale (e l’allegra interpretazione di mia madre), vanificò ogni cosa per colpa di sua moglie.
(1) G. Deledda, Tradizioni popolari di Sardegna, a cura di D. Turchi, Roma, Newton Compton Editori, 1995, pp. 147-153.
II. L’Arca di Noè
L'Arca dovrà essere di queste dimensioni: lunga centocinquanta metri, larga venticinque e alta quindici (Genesi, 6, 15).
Tottu incominzesit cun s’Arca ’e Noè,
chi fit una barcha de chentuchimbanta metros e trintatrès.(1)
Dovete sapere voi tutti — che siete senza cervello e prima vi pentirete dei vostri peccati e meglio sarà — che a quei tempo Babbu Noè era già molto stanco, proprio a causa del grande lavoro per la costruzione dell'Arca. Perché lui era uno che rispettava le consegne, e non era uno scansafatiche, unu mandrone come te, Giuanne Mattifaladu, che sono già tre settimane che mi dovevi finire la staccionata del pollaio e quelle invece continuano a razzolare nel cortile.
Torrende a sa Bibbia... Babbu Noè aveva preso l’abitudine di sdraiarsi ai piedi di una collina e di appisolarsi sempre più spesso, in attesa dell‘arrivo del grande Diluvio, che non arrivava mai.
Erano anni ormai che lui aveva piantato una grande vigna proprio su quella collina, dopo aver scoperto le virtù dell’uva, e anche del Cannonau e del Moscatello, chi a Babbu Nostru li piaghet meda: a Lui piace molto per la Messa, ricordatelo tutti!… Perciò gli capitava spesso di essere un po’ troppo “allegro” di mattina presto... propriu comente ’e a tie, Mimmia Grodde’(2), che non mi stai nemmeno ascoltando!
Una mattina, mentre Babbu Noè se ne stava al riparo di una pelle di capra tesa tra due tralci della vigna, alcune grosse nuvole di pioggia incominciarono a volteggiare nell’aria, mentre i tuoni rumoreggiavano come colpi di martello sull’incudine e l’acqua cadeva dal cielo a cantaros e a rios: a fontane e a fiumi.
-- Noè, ehi, Babbu Noè!», chiamò il più piccolo dei figli, che si chiamava Jafet. E Noè si svegliò un po’ infastidito.
«E it est suzzedende? Ma che cos’è tutto questo baccano?», domandò.
(1)”Tutto ebbe inizio con l’Arca di Noè, / che era una barca di centocinquanta metri e trentatré”.
(2)”Proprio come te, Mimmia Grodde”.
«È la pioggia!», disse il secondo figlio, che si chiamava Cam.
«La pioggia? Bella, la pioggia!», gridò contento il vecchio patriarca, asciugandosi la lunga barba bianca. «Fa bene alla mia vigna».
E allora Sem, il più grande dei figli, esclamò:
«Ma non è una pioggia qualsiasi: è il Diluvio. E’ tempo di entrare nell’Arca, Babbu Noè». E la moglie di Noè, che era più bisbetica della suocera di Barore Culimodde, in chelu che siat, in cielo si trovi, gli gridò:
«Pesadinne, imbreagone, chi est pioende a cantaros»(1).
Finalmente il vecchio patriarca si ricordò del patto che aveva stretto col Signore e ordinò a tutti di entrare nell’Arca.
Ma anche quando furono tutti nella stiva, la barca non si muoveva ancora. E allora la moglie di Noè incominciò a brontolare:
«Beh, e ite diaulu semus aisettende?», chi diavolo stiamo aspettando per partire?
«Gli animali», rispose Babbu Noè. «Il Signore mi ha ordinato di portare con noi una coppia di tutti gli animali che vivono sulla terra».
Dovrai farvi entrare anche una coppia di ogni essere vivente, un maschio e una femmina, per conservarli in vita con te. Di ogni specie di uccelli, di ogni specie di bestie e di ogni specie di rettili verrà con te una coppia per aver salva la vita (Genesi, 6-21).
«Ih, bellu fiagu, mi!», borbottò la moglie di Noè. «Chissà che puzza faranno».
«Eh, eh! Gai hat nadu Isse e gai fatto deo!», rispose Noè. «Così ha ordinato il Signore e così io farò».
Ed ecco arrivare gli animali da ogni angolo del mondo. E mentre entravano nell’Arca, Noè controllava che ci fosse solo una coppia per ciascuna specie:
S’alveghe cun su muntone, sa craba cun su crabone.
Sa lepere cun sa lepperedda, su cane cun sa cattedda.
Su attu cun s’attulina, su puddu cun sa puddina.
S ’aineddu cun s’aina cana, su caddu cun s’ebba galana.(2)
Quando infine tutte le coppie di animali si furono sistemate nell’Arca, Noè diede ordine di tirare su il ponte e di partire, prima che le acque del Diluvio invadessero l’Arca.
(1) “Alzati ubriacone, che sta piovendo a dirotto”
(2) “La pecora con il montone, la capra con il caprone. / La lepre con la leprotta, il cane con la cagnetta. / Il gatto con la gattina, il gallo con la gallina. / L’asinello con l’asina albina, il cavallo con la bella cavallina.”
Ma proprio in quel momento arrivò un altro animale, mai visto prima.
Era stranissimo: feu che su peccadu mortale, brutto come il peccato mortale!
Aveva corpo d’asino e muso di volpe, zampe di cavallo e zoccoli di capra, orecchie di lepre e coda di leone. Gli occhi, poi, sembravano due braci ardenti che trapassavano le persone.
E custu it’este!», esclamò Babbu Noè, impressionato. «Che razza d’animale sarà mai?».
A questo punto si ricordò un avvertimento del Signore: «Bada che nell‘Arca non entri anche il Maligno: su Diaulu intregadu, che è il maggiore responsabile del Diluvio, perché è per colpa sua che il mondo è diventato così tanto malvagio».
«Oh! — nachi — No asa a essere Satanassu in pessone?! Non sarai per caso Satanasso in persona!? Vade retro! Torradiche a s’Inferru!».
Ma ecco che la moglie di Noè si fece avanti e guardò negli occhi lo strano animale. E allora quel demonio d’un diavolo (perché di trattava proprio di lui!) ricambiò lo sguardo con occhi dolcissimi, teneri, sorridendo come un bambino che guarda sua madre... Falso e bugiardo come Belies Bellucaghende, che m’aveva promesso di arare la vigna e non s’è ancora visto nemmeno dipinto!
La donna s’incantò, si sciolse per la passione e accarezzò sul muso lo strano animale, il quale le si strusciò addosso comente una cattedda, come un cucciolo di cane.
«Abbaidade cant’est bellu!», esclamò la moglie di Noè. «Guardate com’è bello e docile. Com’è possibile che un animale così dolce possa essere il Maligno? Ti prego, Noè, fai salire anche lui nell’Arca! Fallo per me!».
E tanto disse e tanto fece, che alla fine anche Babbu Noè si convinse che quello strano animale non poteva essere il diavolo. E lo fece salire.
E quando il Diluvio cessò e gli animali si dispersero nella nuova Terra, anche il demonio uscì all’aperto e diffuse nell’aria, nell’acqua e nei campi la sua insaziabile malignità.
Ecco perché, nonostante il Diluvio Universale, niente è cambiato nella vita degli uomini e degli altri animali. Malos fini tando e malos sezis oe tottugantos, cattivi erano e cattivi siete rimasti tutti quanti!
E Babbai Maiale concluse burberamente la storia con il solito avvertimento con cui chiudeva sempre i suoi sermoni:
«Ricordatevi sempre che il peccato mortale è come la cacca delle galline sul selciato del cortile, che non viene via nemmeno sfregandola con la pietra pomice!».
III. LA CONFESSIONE
Il segreto della Confessione era ciò che maggiormente teneva legati i peccatori silighesos al loro parroco thiezinu.
Ma, allo stesso tempo, li terrorizzava. Perché quel segreto, grazie ad una collocazione improvvida del confessionale proprio nel punto più acusticamente rilevante della piccola chiesa parrocchiale, rischiava continuamente di saltare, per via degli improvvisi scatti d’ira di Babbai Maiale, la cui voce “nasina” e adenoica attraversava la grata, rimbombava contro l’altare come una schioppettata, per poi rimbalzare fino al portone d’ingresso.
Chi aspettava il suo turno di confessione aveva così modo di ascoltare la penitenza inflitta al suo predecessore e da questa valutare il livello di gravità del peccato commesso: cinque Pater, Ave e Gloria equivalevano ad una «Malasorthe chi t’assaccarret», Maledizione che ti ricopra!, rivolta ad un parente stretto, quasi una mezza bestemmia, e quindi di grado non troppo elevato.
Dieci Pater, Ave e Gloria corrispondevano invece ad una bestemmia vera e propria, e quindi di livello medio alto.
Venti Pater, Ave e Gloria di penitenza, da recitare immediatamente sull’inginocchiatoio in fondo alla chiesa, equivalevano ad un orrido pensiero impuro, quasi innominabile, di livello molto elevato.
Un occhio di riguardo, in queste occasioni, Babbai Maiale lo riservava soltanto ad Assuntina, la povera scema del paese.
Una donnina minuta — raccontava mia madre — orfana e sola perché ripudiata da tutti i parenti, che viveva della carità della gente. Una carità, talvolta, a dir poco pelosa, visto che qualche “buon” maschietto ne approfittò in diverse occasioni, mettendola incinta.
La prima volta che questo fatto accadde, Assuntina andò a confessarsi da Babbai Maiale, il quale saltò dapprima su tutte le furie, chiedendo perentoriamente il nome del padre traditore.
Ma la poveretta non lo ricordava proprio, perché, nella sua primitiva ingenuità, non riusciva a collegare l’idea di un atto sessuale con la sua gravidanza.
E lui, il buon parroco, dopo un primo tentativo molto impacciato di fornire una spiegazione “scientifica”, si trovò subito nella necessità di chiudere precipitosamente la confessione, che rischiava di diventare un po' troppo "spinta".
Perciò concluse l'argomento sbrigativamente dicendo:
«Fiza mia, hasa fattu un ibbagliu... Hai fatto uno sbaglio, figlia mia. Cerca di non farlo più. Devi dire dieci Pater, Ave e Gloria».
Un anno più tardi, la povera Assuntina ci ricascò un’altra volta, e andò in confessionale con un bel pancione di almeno sette mesi.
«Appo fattu un atteru ibbagliu!» confessò contrita.
«Eh, no, no!», urlò Babbai Maiale, andando su tutte le furie. «Custu no est un ibbagliu: custu est bagassumine!». (1)
La schioppettata vocale fece sbiancare tutti i santi presenti e ammutolì i pochi fedeli raccolti in fondo alla chiesa.
Tuttavia, quando il bambino venne alla luce, Babbai Maiale non negò il battesimo. Anzi, preparò una bella cerimonia, con tanto di padrini e di invitati.
E quando poteva, si prendeva cura della povera madre scriteriata e dei suoi bambini innocenti.
(1) Questo non è uno sbaglio: questa è prostituzione
Fresi – Enna – Medas – Piras
LA SARDEGNA DEI SORTILEGI
Novembre 2004
Newton & Compton editori s.r.l.