Sélim Nassib
Traduzione di Anna Albertano
Sélim Nassib, libanese, è nato a Beirut nel 1946. Arriva a Parigi nel 1969, è studente. Si guadagna la vita scrivendo articoli per diversi giornali sulla situazione del Medio Oriente, Nasser, il Libano, i palestinesi, realtà quest’ultima pressoché sconosciuta all’epoca in Francia.
Diventa giornalista. Realizza numerosi réportages sulla guerra del Libano tra il 1975 e il 1985, per “Le Monde diplomatique” e poi per il quotidiano “Libération”. Dopo il 1985 cambia obiettivo, va nell’Africa nera, in Sud Africa, in India, in Europa, ritorna nel mondo arabo.
Progressivamente avverte i limiti della forma giornalistica, la scarsa capacità d’informazione e di trasmissione degli elementi essenziali.
Tenta di trovare delle forme nuove, più vicine alla finzione, per tradurre la soggettività, l’universo culturale quotidiano, le contraddizioni dell’ altra riva del Mediterraneo. Comincia nel 1990 a scrivere brevi racconti pubblicati ogni mese sulla rivista mensile “L’Autre journal” alcuni di essi anche sui quotidiani “El Pais” (Madrid) e “Dagens Nyheter” (Stoccolma) e sul mensile “Transatlantick” (Monaco). mettono in scena personaggi dell’ Oriente del giorno d’ oggi alle prese con la loro inadeguatezza rispetto al mondo contemporaneo. L’intento è quello di raccontare storie che pongano sempre un punto interrogativo. Nel 1991 è stata pubblicata in Francia la sua prima raccolta di racconti L’homme assis, e nel ’92 il suo primo romanzo Fou de Beyrouth, editi entrambi da Balland.
Nassib ha scritto anche una piccola pièce di teatro sui kurdi, messa in scena a Parigi.
Mia figlia è entrata come un razzo, elegante, profumata, senza bussare. È certo, aspettava che Abla scendesse, l’avrà spiata dal piano di sotto, dietro la sua porta socchiusa, è arrivata subito dopo, ha le chiavi. A letto, alle undici, papà, alla tua età, non ti vergogni, ha parlato senza guardarmi, ho abbassato il lenzuolo sui fianchi, lei ha spalancato le finestre, ha cacciato via il fumo con aria disgustata, ha battuto sui cuscini intorno al piccolo tappeto, ha riposto il narghilè con brutalità, come una bufera del mattino. Ho appoggiato la testa sul guanciale con un sospiro di gioia, sorridevo, ero al settimo cielo, perché impedirmelo.
È uscita sulla veranda, l’ho sentita lanciare un piccolo grido, è rientrata balbettando hai visto cosa è appeso sul filo da stendere... ha ripetuto hai visto... strozzandosi, soffocando, c’è un paio di mutandine rosse. Ho accennato un gesto d’indifferenza, l’ha elettrizzata, ha detto a bassa voce, come in confidenza, finché questo accadeva dentro all’immobile, cioè in famiglia, non dicevamo niente, ti rendi conto, papà, quanto mi hanno rotto le scatole, la sua voce è diventata ad un tratto stridente, tratteneva le lacrime a stento, la strada non deve udire, così attenta alle convenzioni, mia figlia, piena di paure, timorosa di Dio e dell’opinione del prossimo, ha gridato questa volta è troppo... no, ma tu hai visto… quelle mutandine rosse, sono la nostra jirsa, la nostra vergogna stesa all’aria aperta, a lei piacciono espressioni come questa, è uscita di nuovo, è rientrata, non osava staccare le mutandine, non osava toccarle. Si è presa la testa fra le mani, basta, papà, basta... questa storia è durata abbastanza, devi tornare in te, devi tornare ad essere come prima, come sei sempre stato, mamma è mancata meno di un anno fa e tu... e tu... e tu... si è voltata di colpo verso la tenda gonfiata dalla brezza, come si sta bene a gennaio.
Dal guanciale, ho visto le sue spalle scosse da singhiozzi silenziosi, grande interpretazione, non mi sono mosso, non ci sono. Dopo un momento si è calmata, si è avvicinata al letto, la osservavo di sottecchi, era cambiata, una rabbia cattiva aveva invaso i suoi occhi, si è chinata su di me, rigida, col fiato corto, pronta a schizzare il suo veleno. No ma guardati, papà, credi che venga per i tuoi begli occhi, questa prostituta, per il tuo fisico d’ atleta, per il tuo profilo greco, per i tuoi muscoli sodi, per la tua virilità? Sibilava tra i denti ma guardati, guardati in uno specchio, è finita per te, hai settantanove anni e dei nipoti, capisci, hai anche un po’ di soldi, ecco perché questa fruttivendola, questa donna di facili costumi, questa femmina da poco... ho smesso di ascoltare.
Abla ha i seni che sembrano meloni, i suoi fianchi sono espressione dell’abbondanza, la sua bocca, il suo sorriso è di perle di rugiada, io non l’avrei creduto possibile, mai.
Quando Mona è morta, Dio abbia pietà di lei, non sono più voluto uscire di casa, ero stanco, tutta la mia vita era qua, posta nel salotto in “parquet”, la mia vita di coppia unita, onorabile, perfetta. Mia figlia abita al secondo piano con la sua famiglia, mio figlio al primo, venivano tutte le sere, e la tua salute, e il lutto, e povera mamma, mangia almeno, mi deprimevano. Non avevo che la mia nipotina, lbtissam, ha undici anni, è talmente piena di vita… entrava a tutte le ore e restava lunghi momenti senza dire niente.
Era il sogno di Mona, tutta la famiglia in un solo immobile, il mio immobile, sarei diventato pazzo se Abla non fosse apparsa.
Tu non mi ascolti nemmeno, tu non mi ascolti... erano le sue parole, ha girato i tacchi, è uscita rovesciando una sedia sulla sua strada, ha sbattuto la porta così forte da far tremare i muri.
La calma si è lentamente diffusa, fremito di voluttà. Mi sono seduto sul bordo del letto, mi sono stirato, mi sono infilato la vestaglia di satin blu, io non avrei mai osato, è stata Abla e regalarmela. Ho evitato lo specchio, mi sono avvicinato alla veranda, piano piano, col cuore in gola. Era là, dall’altro lato della via Ahmed Iskandar, l’ho vista, la tenda di tulle mi nascondeva, stava rinfrescando la sua bancarella di verdure, con un catino d’acqua ad un fianco, la sua mano libera dava l’impressione che stesse seminando. Ha guardato verso la veranda, troppo tardi, il satin blu mi ha tradito, ha fatto grandi segni, sono stato costretto a mostrarmi, a mia volta l’ho salutata, lei ha battuto le mani, accanto a me sventolavano le sue mutandine rosse, la mia libertà.
A gesti mi ha chiesto di abbassare il cesto, ho srotolato la corda sopra la balaustra, lei ha preso due grosse manciate di nespole e le ha strette al seno, ha attraversato la strada correndo, ha gridato sono le prime della stagione, mi ha mandato un bacio, è corsa di nuovo, tra le macchine, che bambina, non ha neppure quarant’ anni. È grazie a questo cesto che è cominciata la nostra storia.
È stato durante il lutto. Un mattino, mi è tornato l’ appetito, non c’era niente da mangiare. L’ho chiamata dalla veranda, ho gridato la mia ordinazione, arance, limoni, patate, cipolle, lei è venuta fino ai piedi dell’immobile per servirmi, vedevo i suoi seni dall’alto, quando è stato pronto ha scosso la corda, avevo messo i soldi nel cesto. Ho ricominciato l’indomani, e anche il terzo giorno, era un sorriso nella mia giornata, in fondo alla corda, con gli occhi rivolti in su. Non avevo più bisogno di niente ma il quarto giorno ho ordinato un’insalata e delle melanzane, delle melanzane io che non ne mangio mai. Sono trascorsi otto giorni, non ci si diceva niente, soltanto sguardi, il cuore che batteva forte. Una sera ho chiesto due cocomeri, belli, succosi, la corda del cesto si rotta, è stata costretta a salire.
Di nuovo la porta, è mio figlio, me l’aspettavo. Sua sorella è l’isterica, lui, le espressioni di condoglianze, papà, ti devo parlare, è grave, papà, tu dimentichi in quale quartiere siamo, un nuovo altoparlante è stato installato sul minareto, ogni giorno ci sono sempre più donne velate, la gente parla, che cosa penserà, non ti si vede nemmeno più alla moschea, ai tempi di mamma non mancavi mai, io mi concentravo sull’orologio della sala da pranzo. Ancora sette ore, Abla riordinerà la sua bancarella, piegherà il suo grembiule, sentirò i suoi piccoli piedi correre sulle scale. Ci sono certe cose che tu... certi oggetti che non... mi ascolti, papà... poveretto, per niente al mondo pronuncerebbe quella parola, mutandine rosse è troppo per lui, lo conosco, vive sottomesso. La notte è ancora nelle mie vene, non sapevo che esistesse, lei ha soffiato sulla brace, non aveva altro per accendere il narghilè, abbiamo talmente riso, ha bagnato le sue mutandine, e le ha stese ad asciugare.
Non ho notato quando mio figlio è uscito, mi accade sempre più spesso, mi sono risvegliato dalle mie fantasie e lui se ne era andato, come avrebbe potuto capire. A me, non era mai capitato niente, avrei potuto morire prima ancora di cominciare.
Non so come sia passata la giornata, devo aver dormito, al risveglio, erano le quattro, l’ora di prepararmi. Mi sono fatto un bagno, mi sono rasato, ho tirato fuori una cravatta, una camicia bianca inamidata, le mie scarpe nere lucide, stavo per fissarmi le bretelle quando hanno suonato, troppo presto per Abla, era Ibtissam, sconvolta. Perché è così, nonno, ha pianto sul mio collo, perché bisogna cambiare, io non sapevo di cosa parlasse. L’ho portata fino alla veranda, aveva ancora la cartella sulle spalle, gliel’ho tolta, tirava su col naso. L’ho messa a sedere al posto di Abla, la mia principessa, ho steso la tovaglia sulla tavola rotonda, ho lavato le nespole, gliele ho portate, ho acceso le candele, anche se la notte non era ancora scesa.
Lentamente, si è calmata, la guardavo mordere la polpa arancione, ho lasciato passare il tempo. Mi ha raccontato, con gli occhi bassi, ci hanno riuniti oggi, alla fine della lezione, hanno detto che siamo in sesta, che siamo grandi, che non dobbiamo più giocare coi ragazzi, è troppo tardi ora. L’ho guardata, mi ha ricambiato lo sguardo, ho mormorato è terribile, ha fatto sì con la testa, si è concentrata sul piatto di nespole aggrottando le sopracciglia, poi ha bisbigliato senza alzare la testa sai nonno, quando , hanno detto questo, ho pensato che devo ridiventare piccola, è l’unica soluzione. Le ho detto sì, oppure molto vecchio, per poter sfuggire loro.
da “Linea d’ombra”
febbraio 1993
numero 79