Le stelle brillavano in cielo e la brina sulla terra quando si chinò ad osservare l'acqua che fluiva lentamente nel secchio.
Che dannata vergogna non dare ai poveri una fontanella con un getto più forte.
Era tremendo quando tutte e dieci le famiglie che abitavano il caseggiato avevano bisogno d'acqua allo stesso momento. Per non parlare di quando anche i vicini delle case accanto usavano le loro fontane: allora il getto si riduceva ad un minuscolo filino di fastidiosissime gocce.
Spesso, dopo esser scesa in cortile per prendere un secchio d'acqua, non riusciva a trattenere la rabbia trovando davanti a se chi lavava una verza direttamente alla fontana, chi aspettava il suo turno con una bacinella piena di patate, chi ancora teneva in mano un bollitore da riempire, canticchiando un motivetto.
La cosa migliore era riempire il secchio di notte, cosicché non vi fossero intralci al mattino e suo marito potesse come al solito darsi una veloce lavata e fare rapidamente colazione prima di precipitarsi al lavoro.
Ecco il campanile di San Giorgio che batteva la mezzanotte e portava un nuovo martedì da sovrapporre alla pila di martedì che aveva già buttato dietro di sé. Martedì… il giorno che odiava, il giorno che temeva, il giorno che sentiva essere sempre in agguato.
Il giorno che, appena buttato dietro alle spalle, ricompariva d'incanto con una piroetta difronte a lei.
Il giorno che, quando i panni erano asciutti, stirati e sciorinati, tornava inesorabile ed impietoso a portarle un nuovo bucato, a tirarla giù dal letto alle sei del mattino e a farla lavorare faticosamente tutto il giorno, in silenzio, senza svaghi né pause fino a mezzanotte: portar su i secchi d'acqua pulita, lavare, strizzare, risciacquare, lavare, strizzare e risciacquare di nuovo e poi giù per dieci rampe di scale con l'acqua nera dello sporco di una settimana.
Erano otto anni ormai che ogni martedì, eccetto durante i travagli dei parti, salendo le scale, scendendo le scale o aspettando in cortile, come adesso sentiva i dodici rintocchi del campanile di San Giorgio segnare la fine di un giorno e l'inizio di un altro.
Un brivido le attraversò il corpo, alzò gli occhi al cielo e si domandò che nome avesse mai quella stella che brillava lassù, proprio sopra la sua testa.
Risaltava nella volta nera del cielo in modo diverso dalle altre stelle, emanando una luce più intensa e più calda: si poteva dire che quella risplendeva, mentre le altre baluginavano solamente.
Sovente da bambina sua madre le aveva raccontato che Dio si nascondeva dietro le stelle, che servivano agli angeli per riposare i piedi stanchi durante le loro traversate del paradiso e che a Natale, allo scoccare della mezzanotte, tutte le stelle danzavano.
Si chiese che cosa danzassero, se un ballo scozzese o un valzer.
Non conosceva nessuno che le avesse mai viste danzare.
Probabilmente anche questa storia, come tante altre, era tutta un'invenzione.
Benché sarebbe potuta succedere qualsiasi cosa a mezzanotte del primo Natale.
Poteva raffigurarsi mentalmente il bambino addormentato nella mangiatoia o mentre allungava le braccine verso sua Madre, San Giuseppe statuario alle sue spalle e i pastori in un angolo, i re magi in un altro che guardavano estasiati la danza ora delicata ora delirante delle stelle nei cieli…
Non sarebbe stato divertente se adesso avessero iniziato una danza jazz in cielo?
Lei avrebbe subito imparato i passi e si sarebbe precipitata a ballare con loro.
“Seguimi Charlie tra le nuvole e in cielo-o-o!”.
Non stasera però, non dopo aver fatto il bucato tutto il giorno, dopo aver lavato i vestiti sporchi di Jack, suoi e dei ragazzi, indossati per una settimana intera in casa e per strada.
Sarebbe stata proprio una bella scena: lei con le gambe bagnate fradice fino alle cosce, indolenzite e irrigidite dal lavoro di tutto un giorno, a ballare un Jazz o un Charleston intorno a una stella. Uno, due, unisci, piega; uno, due, unisci, piega.
Poteva forse già piegare mentre univa i piedi e ricominciare subito con un altro passo… meglio rimandare a un altro giorno. Ma datele un po' di riposo da marito e figli, qualche soldo per un vestitino nuovo e sarebbe stata di nuovo pronta a ballare un Jazz o un Charleston illuminata dal potente fascio di luce della più grande stella del firmamento.
“Come sta-a-atara...rira...rira...rira...rira...ra-a-a….
Alza le gambe, ancora di più; mostra il ginocchio e anche più in su.
Non far la timida davanti alle stelle, brillano in cielo e son tutte belle...brillano in cielo e son tutte belle...”
Sentì una scossa che le attraversava tutto il corpo.
Fu pervasa dal desiderio di girare in tondo nel cortile deserto, circondato dalle sobrie case operaie, ora scuro e silenzioso rifugio dei dormienti; di cantare piano, di muovere e dimenare il corpo a ritmo di Charleston o di Jazz; di mostrare alla stella che nonostante le sette gravidanze in otto anni poteva ancora vantare una bella linea; che aveva ancora i capelli lunghi e folti e i riflessi biondi non erano del tutto scomparsi tra il bruno; e che il suo viso, i cui lineamenti si perdevano nell'oscurità, conservava la bellezza di un tempo.
Piegò la testa all'indietro e si mise a fissare la stella lassù in alto.
Poi iniziò a muovere il corpo secondo il ritmo e le figure di una danza Jazz e si mise a girare intorno al cortile, mentre l'acqua scendeva pigramente dalla fontana, riempiva il secchio, saliva fino all'orlo, scivolava fuori ai lati per finire risucchiata nello scarico.
Andò avanti col piede sinistro, poi con il destro, li unì e piegò all'indietro prima una gamba poi l'altra.
Fece un passo avanti e con una torsione si voltò per ricominciare d'accapo.
Uno, due, uno, due, unisci, piega.
Teneva la testa all'indietro e lo sguardo fisso sulla stella.
Mentre si muoveva, sentì la gonna inzuppata d'acqua premere e pesare sulle ginocchia e, senza fermarsi, - uno,due – se la slacciò alla vita – unisci, piega.
Quando ricominciò i passi in avanti, la gonna scivolò giù e si ritrovò a danzare vestita solo della corta sottana nera.
I capelli sciolti sulle spalle, la camicetta abbottonata disordinatamente, la sottogonna nera sgualcita, le scarpe ricucite, le calze di finta seta piene di rinforzi, rattoppi e smagliature fermate: così volteggiava nell'angusto cortile, avanti, indietro, in tondo, in largo, in lungo, girandosi, fermandosi, piegandosi, ma con la testa sempre rivolta all'indietro a fissar la stella:
“Mi son fatta donna da bimba che ero,
Discesa da Dio, lo dico davvero;
Discesi da Dio e venni qui a stare,
Dannata città, sol da dimenticare.
Discesi da Dio e venni qui a stare,
Dannata città, sol da dimenticare.
Poi vidi un uomo da perder la testa
Lo dico davvero ci persi la testa.
Mi sfama, mi cura, mi ha preso in moglie
Mi riempie la vita, ho sempre le doglie.
Cantando e ballando di sotto a 'sto cielo
Riapro la gabbia e dimentico il velo,
Dimentico tutto e se sono in vena
Le stelle son luci e le nubi la scena.”
Danzava sempre più in fretta, piegandosi, rialzandosi, avanti e indietro per il cortile, in preda all'eccitamento.
“Si è fatta donna – e un bagliore le riempì gli occhi – da bimba che era, discesa da Dio – il respiro si fece più affannoso e ansimante – è una storia vera; discese da Dio e venne qui a stare, dannata città – volteggiò a destra e poi velocemente in avanti – sol da dimenticare.
Poi vide un uomo da perder la testa, lo dice davvero lei perse la…
Uno, due, unisci, piega – “La sfama, la cura, l'ha presa in moglie, le riempie la vita, ha sempre le doglie...”
Ruotò le braccia selvaggiamente e si lanciò nel vortice della danza: dimenava il corpo, un passo dopo l'altro, sempre più in fretta, univa, piegava, alzava le gambe girando e rigirando intorno al cortile e muovendosi all'impazzata con la fronte gocciolante e le guance infuocate, percorse da rivoli di sudore. … Era esausta, le gambe cominciavano a farle male e il cuore le batteva forte, così forte da non riuscire più a respirare… Inciampava continuamente e non poteva quasi più piegar le gambe; i movimenti si facevano sempre più goffi e a stento riusciva a mantenere l'equilibrio e a non cadere… Decisa a non smettere, tese i muscoli in una lotta selvaggia con il proprio corpo per seguire il ritmo sfrenato e folle della canzone che cantava e danzò, col respiro ansimante, muovendo le gambe, oscillando il corpo, battendo i piedi e non togliendo mai lo sguardo dalla stella.
“…. Riapro la gabbia e dimentico il velo, dimentico tutto e se sono in vena le stelle son luci e le nubi la scena-a-a-a”
Le ginocchia cominciavano a cedere.
Sentì una fitta acuta alle gambe … un dolore sordo mordeva le reni.
Ormai riusciva solo più a trascinare i piedi, dondolando qui e là per il cortile, ma continuava a guardare la stella spostarsi su e giù, a destra e a sinistra, seguendo i suoi movimenti.
Si sentiva senza forze, come se tutta l'energia fosse uscita da lei.
Il canto si trasformò in un mormorio, un mormorio sempre più lieve e senza vita tra i sussulti affannosi del respiro.
Poi, esausta, cadde in ginocchio al centro del cortile e si appoggiò pesantemente al paletto di legno che reggeva il tubo dell'acqua.
E l'acqua continuava pigramente ad uscire, a riempire il secchio, a defluire ai lati e a scomparire giù per lo scarico.
Stette lì per un po', sopraffatta dalla stanchezza in mezzo al cortile lastricato, la testa a ciondoloni, una spalla appoggiata al paletto e il corpo ricurvo come un ricciolo sulle ginocchia.
E tutt'intorno sempre loro: quelle puttane di case, soffocanti, oziose, tenute su dal lerciume.
Allungò la mano destra e la mise sotto il filo dell'acqua, formando così una cascatella che si buttava nel secchio.
Poi, fu attirata dal timido gorgoglio dell'acqua risucchiata dalla griglia di scarico.
...Uno dei suoi bimbi aveva fatto un simile gorgoglio prima di andarsene.
Dov'era adesso? Su, su, in alto, da qualche parte, volteggiando in paradiso o magari dietro a quella dannata stella.
Stella bastarda, stella maledetta. Non voglio più guardarla, mai più. Marcisca pure, marcisca, marcisca in cielo… No, non doveva bestemmiare contro le stelle, era una cosa pericolosa … nessuno poteva sapere quanto fossero vicine a Dio le stelle… forse erano le insegne degli angeli benedetti… .
Che cosa sciocca da fare, ma lei faceva sempre cose sciocche… . Forse erano gli anelli nelle dita di Dio… potesse averne uno per impegnarlo… . Pensa un po' andare da Lowry con una stella nel cestino! Tirarla fuori, posarla sul bancone e chiedere a Sammy quanto le avrebbe dato in cambio.
Oh no, doveva cercare di allontanare dalla mente questi pensieri empi.
Lentamente e di mala voglia si ricompose e piano piano cominciò a tirarsi su.
Chiuse il rubinetto, fermando così il filo di gocce che scendeva ed inclinò il secchio strapieno per far uscire fuori un po' d'acqua.
Poi si chinò a raccogliere la gonna caduta durante la danza e se la buttò sulle spalle, prese il secchio con la mano destra, attraversò barcollando il cortile, sollevò il chiavistello della porta ed entrò nell'oscurità dell'androne.
Brancolò nel buio, seguendo il muro con le dita per trovar la strada.
I suoi polmoni, abituati all'aria fresca e frizzante del cortile, potevano sentirne la diversa densità al chiuso: era aria calda, umana, spessa, inspirata ed espirata dai quarantacinque corpi respiranti che vivevano lì.
Finalmente la mano raggiunse la ringhiera delle scale e, afferrato il mancorrente, salì la prima rampa, svoltò, salì la seconda, attraversò il pianerottolo e avanti così… Poi il piede scivolò su qualcosa di molle e limaccioso.
Maledetto branco di porci! Qualche bimbo doveva averla fatta per le scale e nessuno si era preoccupato di pulire.
Salì a fatica fino al quarto piano. Qui appoggiò il secchio a terra e fece una pausa per respirare.
Non riusciva più a stare in piedi, si sentiva le gambe calde e percorse da uno strano tremolio.
Che stupida era stata a ballare in quel modo… ancora due rampe di quelle dannate scale e poi finalmente il letto e la speranza di un sonno ristoratore… .
No, non ci sarebbe stato nessun sonno ristoratore con quel tremolio alle gambe e quelle fitte ai muscoli… otto rampe erano fatte, ancora due e poi il riposo. Doveva aver fatto le scale venti volte quel giorno.
Venti volte… facevano duecento rampe portando su acqua e duecento rampe scendendo, senza contare tutto il resto: lavare, strizzare, stendere, cucinare.
Poteva ben vedere Dio che il suo lavoro non era certo leggero.
E tutto ciò per condurre una vita pura e moralmente sana.
Ma è la grandezza di Dio che fa ricche le case dei poveri.
Offrì la stanchezza e le pene della giornata a Gesù.
Dimenticò di aggiungere il ballo.
Tanto quello non poteva di certo offrirlo: Sarebbe stato blasfemo o qualcosa del genere. Quel ballo rovinava l'offerta a Dio del duro lavoro di una giornata.
Doveva essere impazzita per qualche istante quel giorno.
A un certo punto ebbe una strana sensazione, come se ci fossero delle cose vicino a lei sul punto di toccarla.
Un brivido freddo le attraversò tutto il corpo facendole accapponare la pelle. Ebbe paura ...non doveva parlare di Dio a quest'ora di notte su un pianerottolo buio … le venivano sempre i brividi quando pensava a cose sacre nel buio.
Guardò giù per le scale e vide una grossa stella luminosa brillare attraverso la finestra del pianerottolo di sotto.
C'era un senso di scherno nel suo modo di brillare.
Quel posto non era mai stato così silenzioso.
Tutti erano immersi in un sonno profondo… . Sì, c'era qualcosa molto vicino a lei, sentiva il suo fiato e le sue mani che si stavano allungando per toccarla.
Di nuovo sentì quel brivido freddo strisciare sotto la pelle, passare su per le gambe, attraversarle il corpo fino alla testa.
Esitò un attimo, poi con mossa fulminea prese il secchio, fece di corsa le altre due rampe di scale, aprì la porta di casa, entrò e la richiuse velocemente e trepidamente dietro di sé.
Si appoggiò alla porta, esausta e tremante, ma contenta di essere nella rassicurante realtà della sua monocamera, al riparo dal buio e dal silenzio.
C'erano fili carichi di bucato che correvano da una parte all'altra della stanza.
Le tre sedie, messe una di fianco all'altra davanti al camino, erano nascoste sotto una montagna di panni umidi, fumanti di vapore.
Il tavolo era stato spinto contro il muro e la lampada ad olio appoggiata sopra illuminava debolmente la stanza.
La carta da parati con grandi disegni rosa faceva del suo meglio per apparire allegra e confortante. Ed infine c'era il grande letto che dava parsimoniosamente riposo a tutti: i tre più grandi dormivano al fondo, suo marito era supino al centro e il più piccolo alla sua destra.
Dopo aver messo il secchio in un angolo, andò vicino al fuoco, tolse tutti i panni fumanti da una delle sedie, la girò e si lasciò cadere su di essa.
Poi alzò la sottana e si scaldò le gambe.
Era tutta gelata, non si sentiva bene.
Doveva essere quasi l'una e domani la sveglia era alle sei.
Cinque ore di sonno non erano abbastanza per una giovane donna che lavorava così tanto.
Si augurò che i bambini al fondo del letto dormissero tranquillamente quella notte senza scalciare, voltarsi e dimenarsi come al solito.
Se lo augurò anche in nome di Dio. Sei bambini in otto anni.
Il suo utero aveva lavorato come una macchina a vapore: pistoni avanti e indietro, stantuffi su e giù, ingranaggi che ruotavano… chiih….chiih….chiih senza mai fermarsi, sempre avanti, come una macchina a vapore, sempre al massimo della pressione per aumentare, moltiplicare e ripopolare la terra.
Si era giocata il suo destino a tempo di record.
Alzò lo sguardo sulla mensola del camino per vedere l'ora.
Doveva assolutamente decidersi a bruciare quella foto… era solo il triste ricordo di una linea, un bel faccino e una massa di riccioli castani perduti par sempre.
Se andasse ad un ballo ora, non avrebbe più tanti corteggiatori intorno… otto anni così le avevano portato via il meglio della vita.
Adesso, l'unica danza sotto le stelle per lei era da sola e al buio.
Sentì il marito chiedere con voce querula e sonnecchiosa se veniva a letto o se aveva l'intenzione di stare su tutta la notte.
“Sto solo stendendo i panni per la notte” rispose. “Cristo Santo, donna, vieni a letto e spegni quella luce! Nessuno può dormire con quella lampada accesa sul tavolo!”
“Fai piano ora” borbottò suo marito “e non ti allargare come se ci fossi solo tu nel letto!”
Si allungò piano, piano e separò gradualmente le quattro paia di gambe al fondo del letto cercando un po' di spazio per i suoi piedi.
Si mise su un fianco con un braccio intorno al più piccolo, dando la schiena al marito e ponendosi per storto in modo da star comoda e occupare meno spazio possibile.
Rimase immobile, ma tutti i muscoli le facevano terribilmente male.
Le doleva anche vagamente la testa e non riusciva né a concentrarsi su qualcosa, né a lasciar scorrere i pensieri, tanto era stanca, sfiancata, distrutta dal lavoro di quel giorno.
Voleva solo riposo ora…riposo...e sonno…sonno e riposo fino alle sei di domani.
Che bel...lo essere...a letto...e stare per ad...dormentarsi...che be… Sentì confusamente un braccio scivolarle intorno alla vita...e una gamba scavalcarle il corpo.
Cercò di scrollar via la gamba e di liberarsi dalla presa del braccio, ma questa si faceva sempre più stretta.
Poi si sentì tirare all'indietro per essere rivoltata sulla schiena.
“No Jack, non stasera...sono troppo stanca per quello...lascia perdere Jack...”
Cercò di buttarsi in avanti e uno dei bambini in fondo al letto si mise a urlare di paura e di dolore essendo stato graffiato sulla coscia dai suoi piedi. “Zitto tu!” sentì dire malignamente dal marito “o ti passo la cinghia sulla schiena!” Lottò debolmente, mezza addormentata, per difendere il suo riposo, perché non era giusto che la costringesse quando lei era così stanca, stanca, stanca...Lui affondò le dita nelle sue spalle e la immobilizzò bruscamente dicendo:
“Vuoi stare un po' ferma o no?”
Cedette per stanchezza e abitudine, ormai completamente girata sulla schiena.
Aprì gli occhi stanchi e si accorse della stella che l'aveva osservata ballare: risplendeva grandiosa per lei attraverso il vetro del lucernario.
Copyright Sean O'Casey, 1956, e George Braziller, Inc.
Da “LINEA D'OMBRA”
dicembre 1992
numero 77